martedì 14 dicembre 2010
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Lo svolgimento tutto sommato ordinato e corretto delle elezioni legislative in Kosovo, le prime dopo la proclamazione dell’indipendenza del Paese, è una buona notizia. Per il Kosovo, ovviamente: il piccolo Paese balcanico, con il 47% di disoccupati, la povertà diffusa (si vive, in media, con meno di un euro al giorno), la criminalità rampante e un tasso di corruzione che ha già travolto il governatore della banca centrale, un ministro e molti alti funzionari, avrebbe potuto andare in pezzi se l’appuntamento con il voto si fosse trasformato in un’occasione di scontro e divisione. Si delineano, invece, due forze (il Partito democratico e la Lega democratica) e due personalità – l’attuale premier Hashim Thaci e il sindaco di Pristina Isa Mustafa – che hanno accettato il confronto democratico e sembrano in grado di gestirne oneri e onori.Non guasta, nel giudicare positiva la giornata, che molti serbi nelle enclave del Sud si siano sottratti alla tentazione del boicottaggio (sostenuto anche da Belgrado) e siano andati a votare. L’ultima cosa di cui si sente il bisogno è una specie di Palestina balcanica, con rancori pronti ad autoalimentarsi e a riprodursi nel corso dei decenni. Fermi restando i torti e le ragioni, la pace in Europa val bene il sacrificio degli ultimi nazionalismi novecenteschi.L’elezione del nuovo Parlamento in Kosovo, però, acquista ulteriore significato se osservata come l’ultima pennellata a un quadro, quello dell’Europa dell’Est, che si va ricomponendo secondo equilibri forse meno "giusti" rispetto alle pur legittime aspirazioni di molti ma di certo assai più realistici e pacifici. Alla Serbia, che pure non cessa di rivendicare a sé il Kosovo ormai indipendente, è stata più che socchiusa la porta dell’Unione Europea che, come recenti accordi industriali dimostrano, significa maggiore sviluppo e prosperità economica. L’anello serbo, peraltro, andrà a completare una catena balcanica che già comprende Slovenia, Bulgaria e Romania e presto potrebbe includere anche Croazia, la stessa Serbia, Macedonia e Albania, con gran vantaggio per la stabilità del Vecchio Continente.Più in là, sono ormai quasi un ricordo le tensioni, peraltro ancora recenti, tra la Polonia e l’Ucraina da un lato e la Russia dall’altro. Anche in quel caso, ben giustificate dalla storia ma assurde agli occhi della geografia e dell’economia. Della calma ritrovata noi europei d’Occidente già godiamo gli effetti (qualcuno si è accorto che non si leva il solito allarme invernale sulle interruzioni delle forniture di gas russo che attraversano l’Ucraina?). Mosca ne beneficerà presto, forse già nel 2011, quando potrà entrare nell’Organizzazione mondiale del commercio da cui era esclusa, fino all’accordo raggiunto il 24 novembre, anche per l’opposizione dell’Europa.Molti nodi, insomma, si stanno sciogliendo a Est. È l’effetto combinato della crisi economica, che ha brutalmente tagliato i margini per le avventure politiche inutili, e della persistente fascinazione per l’Europa unita, così criticata da chi è dentro (fino al punto di scorgervi solo burocrazia e impicci) e così desiderata da chi è fuori e che guarda a essa come a un club del benessere e del progresso. Di quella che per secoli è stata una regione tra le più turbolente e tormentate del mondo, potremmo oggi dire con Leo Longanesi: «Cercava la rivoluzione, ha trovato la prosperità». Tutto possiamo fare tranne che dolercene.
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