martedì 23 dicembre 2008
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I primi licenziamenti sono stati quelli dei dirigenti intermedi, poi è cominciato il ricorso massiccio alla cassaintegrazione degli operai: non meno di 300mila tute blu faranno – loro malgrado – una vacanza natalizia lunga quasi un mese a stipendio ridotto. Con l’inizio dell’anno nuovo, invece, sarà la volta dei ragazzi a termine e degli interinali ai quali non saranno rinnovati i contratti. Purtroppo è solo l’avvio di un processo che nel 2009 produrrà la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro. E, se si considerano anche i lavoratori sospesi per periodi più o meno lunghi, si stima che un milione di persone, e forse più, potrebbe trovarsi a casa senza lavoro. Una massa enorme che non può essere lasciata sola. Sul piano economico, anzitutto. E dunque occorrerà probabilmente ricalcolare nei prossimi mesi la disponibilità di fondi messa in campo dal governo per verificarne la congruità e l’equa distribuzione tra comparti produttivi e tipologie di lavoratori. Fermarsi al dato economico, per quanto fondamentale, sarebbe però una sottovalutazione. La coesione del Paese, infatti, non si assicura esclusivamente garantendo (per quanto possibile) i livelli di reddito, ma ancor più evitando lo sradicamento sociale delle persone, la perdita d’identità e di professionalità, una precoce obsolescenza delle competenze. Il licenziamento, i lunghi periodi di distacco da fabbriche e uffici, infatti, possono produrre danni irreversibili anche nel cuore e nelle menti delle persone, nella loro capacità di 'fare' e dunque alla fine di 'essere', se è vero che il lavoro rappresenta ancora uno degli strumenti principali attraverso il quale costruiamo e affermiamo la nostra personalità. Occorre allora uno sforzo straordinario per evitare di recidere i legami fra lavoratori e aziende – almeno laddove la crisi dell’impresa non risulti strutturale o sia necessario mutare nel profondo l’assetto produttivo – evitando quanto più possibile la messa in mobilità e preferendo invece ammortizzatori più flessibili come la cassa integrazione. In discussione c’è già la proposta di 'settimana corta' mutuata dal dibattito in Germania. In realtà, però, più che da 'copiare', abbiamo da riattivare un’ampia gamma di strumenti con i quali si sono affrontate in passato recessioni analoghe: cassa integrazione a rotazione, contratti di solidarietà, riduzione d’orario, concessione immediata del part-time su richiesta. Ricorrendo, con il concorso delle stesse imprese, degli enti bilaterali e del governo anche a un piano organico di formazione. Non per tenere la gente semplicemente 'occupata a far qualcosa' purchessia, ma per impedire che questo tempo 'improduttivo' diventi anche 'distruttivo' delle persone e delle loro competenze professionali. C’è il rischio infatti che i giovani, neppure o male tutelati sul piano del reddito, subiscano anche il danno dell’arresto della loro preparazione non più completata nel lavoro. E che i più 'anziani', perdendo i contatti con la produzione, si trovino poi spiazzati dalle innovazioni future. Chi conserva memoria degli anni ’80 ricorda certamente lo straniamento di chi veniva espulso dai luoghi di lavoro nelle grandi ristrutturazioni come quella della Fiat, allora senza alcuna prospettiva di rientrare nel mercato. Soprattutto, non dimentica lo stillicidio dei suicidi di operai, senza più lavoro e identità, che quasi quotidianamente scuotevano l’area torinese. Non siamo in una situazione così drammatica. Ma non possiamo attendere che la recessione travolga le persone per attivare un confronto ampio sulla crisi, nel quale ogni soggetto sociale si senta in dovere, prima ancora di avanzare richieste, di porre sul tavolo il meglio della propria elaborazione. È il minimo che si deve a chi perderà il lavoro.
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