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Donald Trump parla alla Casa Bianca dopo l'incidente aereo accaduto a Washington - Copyright (c) 2025 Shutterstock / Fotogramma
Le recenti dichiarazioni di Donald Trump, secondo cui le cause del tragico incidente aereo di Washington sarebbero da attribuire alle politiche di diversità, equità e inclusione dei suoi predecessori, aprono scenari inquietanti.
Nel momento del dolore e dello smarrimento per la morte di 67 persone, il presidente americano non ha indugiato un attimo a puntare il dito contro le politiche di inclusione dichiarando, tra l’altro, che i controllori aerei dovrebbero essere «geni con talento naturale. Non possono esserci persone ordinarie in questo ruolo». La causa della collisione tra l’aereo di linea e l’elicottero militare non è stata causata da una persona con disabilità e ancora si deve attendere l’esame delle scatole nere. Trump ha solo trovato l’occasione per colpire una minoranza, un pretesto per svalutare la persona con disabilità, rea di poter costituire una minaccia per la stessa sicurezza del Paese.
La gravità di queste affermazioni non è tanto nella sua irrealistica ricostruzione dei fatti quanto nella narrazione delle politiche di inclusione, che lascia sottintendere come siano programmi diretti a garantire quote di lavoro per mero obbligo, rafforzando il pregiudizio diffuso secondo cui le persone con disabilità non hanno capacità e non possono a priori essere all’altezza di un lavoro, specie se complesso e se richiede capacità intellettuali elevate. È bastata una dichiarazione, ma uscita dalle labbra del presidente degli Stati Uniti d’America, per far tornare evidente lo stigma che ancora accompagna le persone con disabilità che non riescono a essere viste da tutti noi come persone ma come disabili.
Quella che dovrebbe essere considerata una condizione diviene una caratteristica assoluta della persona.
Questo punto di vista, ormai diffuso come abilismo, nasconde certamente il peggiore dei pregiudizi verso le persone con disabilità e apre a una cultura decisamente discriminatoria e a una società ancora più diseguale. L’abilismo sconfina sempre e comunque in una visione negativa della persona con disabilità, sia quando è pietistica e compassionevole – come se la condizione di disabilità fosse una situazione umanamente inaccettabile – sia quando è eroica e ispirazionale, perché evidenzia una bassa aspettativa e una forte svalutazione. I pregiudizi culturali che hanno origine da un’idea di superiorità del corpo “abile” portano inesorabilmente alla marginalizzazione delle persone con disabilità.
Il presidente Trump persevera in questo equivoco e sembra sostenere un modello in cui solo i “i migliori”, “i geni”, meritano di lavorare in settori chiave. Ma chi stabilisce chi è “migliore”? I criteri di selezione dovrebbero basarsi su competenze e meriti reali, non su stereotipi abilisti. È evidente che in tutte le assunzioni, in ogni ruolo e settore, siamo chiamati a guardare alle persone, ai loro talenti, alle loro capacità, alle loro competenze, ma senza pregiudizi e senza discriminazioni.
Nella storia ci sono molti personaggi che hanno raggiunto le vette della scienza, dell’arte, dell’economia, della musica, della politica, anche con disabilità di tipo fisico, psichico o sensoriale. Basti pensare a Stephen Hawking, Albert Einstein, Frida Kahlo, Vincent Van Gogh, Ludwig Van Beethoven, John Nash, premio Nobel per l’economia nel 1994, o a un altro presidente americano, Franklin Delano Roosevelt, che ha guidato gli Stati Uniti fuori dalla grande depressione e nella seconda guerra mondiale su una sedia a rotelle. L’elenco potrebbe essere interminabile.
Così come ci sono persone, con disabilità e non, che svolgono ogni giorno un lavoro ordinario, pulendo locali, insegnando ai giovani in una scuola, curando un malato, stando alla cassa di un supermercato o prendendosi cura della propria famiglia. Ci sono persone che, semplicemente, esprimono la propria identità e i propri talenti lavorando, e con il loro lavoro ben fatto, ordinario o straordinario, partecipano alla vita e contribuiscono allo sviluppo inarrestabile dell’umanità. Lo sviluppo umano ha bisogno di ciascuno. Ognuno è necessario. Le politiche inclusive hanno il compito di consentire a tutti di essere parte della vita economica e sociale e di sostenere le capacità delle persone e la loro libertà.
Stride con le dichiarazioni del presidente Trump il lungo cammino dei diritti delle persone con disabilità, a partire dalla Convenzione dell’Onu del 2006 diretta a promuovere, proteggere e garantire il pieno e uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità, fino alla Carta di Solfagnano, sottoscritta il 16 ottobre scorso in occasione del primo G7 al mondo su disabilità e inclusione.
Ma le parole di Trump ci riportano a una verità ineludibile. Un cambio di paradigma in tema di inclusione non si può realizzare solo ponendo nel diritto il punto di partenza di ogni ragionamento sulla condizione di disabilità. Abbiamo bisogno di cambiamenti culturali che passino attraverso la capacità di ciascuno di vedere la persona per quello che è, e non per i suoi limiti. Il percorso per raggiungere questo cambiamento è tracciato e ha bisogno di uno sguardo nuovo, capace di vedere l’altro senza pregiudizi e di sentirlo come un’opportunità e non come una minaccia. Questo cammino non può che avere radici solide nell’incommensurabile valore della vita e della dignità di ogni persona.