martedì 27 marzo 2012
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Dov’ero, dov’eri, dov’erava-mo il 12 dicembre 1969? La prima cosa che ti viene in mente mentre scorrono le immagini iniziali del film Romanzo di una strage su piazza Fontana, la morte di Pinelli e l’uccisione del commissario Calabresi, è una domanda molto personale. E ti verrebbe voglia di rivolgerla ai tuoi vicini, che immersi nel buio della sala dove si proietta l’anteprima, stanno col fiato sospeso, già conoscendo l’orrore, il sangue, il dolore, i drammi e i troppi silenzi che hanno costellato questa tragedia italiana, avvenuta a poche centinaia di metri da questo cinema milanese. Come se ritrovando un ricordo di quel giorno, potessimo davvero tutti dare un senso più profondo e completo alle emozioni che proviamo ora. Invece, questo è un film – perché di cinema si tratta, non di un libro storico – destinato soprattutto a chi nel 1969 non c’era. A chi non era nato. A chi non ricorda nulla dei fatti narrati. Certo, molti in questo lavoro troveranno delle mancanze, degli errori, delle sfumature così sfumate da diventare omissioni (come quelle sulle responsabilità di Lotta continua nell’omicidio di Calabresi). Troveranno anche una tesi: le bombe a piazza Fontana erano due. La prima messa da alcuni finti anarchici; la seconda da neofascisti, con la complicità di una parte dei servizi segreti e di settori deviati della Nato. Quale sia la verità, in questa storia (non solo nel film), appare una delle cose più difficili da raggiungere. Ma non esiste solo una verità giuridica e/o processuale. Ciò che, nonostante tutto, fa di Romanzo di una strage di Tullio Giordana un un film importante è altro. Innanzitutto è un lavoro ben fatto. Ben recitato e ottimamente diretto. È, come si usava dire un tempo, «cinema di denuncia». Quello che ti fa alzare alla fine della proiezione con gli occhi lucidi e i pugni serrati, mentre sullo schermo appaiono una serie di scritte che ripetono tutte lo stesso concetto: «Nessuno è stato condannato per la strage». Verità oggettiva, quanto terribile, anche – e soprattutto – 43 anni dopo. Ma il cuore del film – come accennavamo – è un altro. È la sua capacità di far emergere una «verità delle persone». Di rimettere in una luce diversa alcuni protagonisti di quella vicenda. Non solo il commissario Calabresi, allora vilipeso e ucciso dal movimento antagonista, che ora ne esce per ciò che era: un galantuomo. Ma anche la figura dell’anarchico Pinelli e il rapporto tra lui e il commissario viene raccontato sotto una luce nuova. Due uomini lontani e molto diversi, ma entrambi onesti nelle proprie posizioni. Insieme a loro (e ad alcuni giudici coraggiosi di stanza a Milano come in Veneto) in questo film giganteggia una terza figura. Quella dell’allora contestatissimo (dal movimento e non solo da quello) Aldo Moro. Sullo schermo appare come un saggio e navigato timoniere che evita alla barca Italia, alla deriva sotto le bombe, di finire contro gli scogli di una nuova dittatura. Uno statista capace di condannare la deriva greca e di non lasciarsi offuscare dalle verità preconfezionate. Un cattolico pronto a sacrificarsi (come dice in chiesa al suo confessore) «perché l’Italia possa risorgere». Se c’è un pregio di questo film, è proprio questo: che Calabresi, Pinelli, Moro e tutte le altre vittime di questa strage tornano a essere, nella loro verià, ciò che erano. Uomini, non simboli.
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