venerdì 20 maggio 2016
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Gentile direttore, leggo su “Avvenire” di mercoledì 18 maggio, nell’articolo che dà conto della spinta per introdurre le “adozioni gay”, la frase della senatrice Cirinnà «Lo Stato fa lo Stato e la Chiesa fa la Chiesa» a proposito della rigorosa analisi che il presidente della Cei, cardinale Bagnasco, aveva fatto della legge sulle unioni civili. Un legge che lei, direttore, ha definito «sbagliata» e a rischio, a causa di altre possibili forzature giudiziarie e normative, di diventare «ingiusta». E mi chiedo: ma qual è la funzione dello Stato? Quella di curare il “bene” dei suoi cittadini avendo uno sguardo sul futuro o di occuparsi dell’“interesse” di solo alcuni cittadini? Ormai, direttore, si sa che chi ha “interessi” non sono le persone omosessuali, che sono solo pedine in una scacchiera piena di prime donne il cui nome è lobby. Mi torna in mente il discorso di papa Benedetto XVI al Parlamento tedesco, il Bundenstag, il suo incipit preso dal libro dei re, nel quale Salomone chiede di aver un cuore docile che sappia rendere giustizia al suo popolo e sappia distinguere il bene dal male. Nel nostro Parlamento dove i partiti esistono solo sulle liste elettorali ed è pieno di “piccoli sovrani”, spero che abbiano l’umiltà di leggere e riflettere quel discorso di un gran teologo e filosofo che tanto ha colpito anche me per la sua profondità e concretezza.
 
Teresio Ticozzi - Abbiategrasso (Mi)
Uno Stato giusto non si dimentica di nessuna minoranza, gentile signor Ticozzi, e dà a ognuno il suo (unicuique suum, come abbiamo titolato e spiegato più volte, riconoscendo cioè senza confusioni e senza forzature distinti diritti e doveri in distinte situazioni). Uno Stato ingiusto si dimentica della gran parte dei suoi cittadini, non rispondendo a domande essenziali e così – riprendo anch’io l’efficace citazione biblica nello splendido discorso che papa Benedetto tenne al Bundestag il 22 settembre 2011 – mancando di «rendere giustizia al popolo». Questo in Italia continua ad accadere nei confronti delle famiglie, e soprattutto delle famiglie con figli. La Chiesa italiana – molte volte e in diverse circostanze anche per bocca dei vescovi e lunedì scorso ancora una volta attraverso le parole del presidente della Cei – lo ha ricordato con preoccupazione, dando voce da Madre agli inascoltati: lavoratori ancora disoccupati o sottoccupati, vittime dell’azzardo e, appunto, famiglie. In questo Parlamento, nel quale per la verità non esattamente tutti si sentono «piccoli sovrani» (o potenti feudatari) e ricordano persino che il loro potere è fondato sulla «sovranità del popolo», c’è chi anche si sta impegnando incalzando il Governo per avviare con concretezza un serio processo di cambiamento nelle politiche familiari. Iniziative come quella di Stefano Lepri (ne diamo conto proprio oggi a pagina 12) e di altri 49 senatori del Pd, come alcune proposte elaborate da Ap o come il piano contro la denatalità delineato dal ministro della Salute Beatrice Lorenzin meritano finalmente di avere realizzazione e successo. E non lo dico solo perché alcune idee-guida della proposta formulata ieri in questi anni sono state più volte articolate e caldeggiate sulle nostre pagine. L’importante è cominciare, archiviando la fase del sostegno sempre parziale, intermittente e contraddittorio alla famiglia. Perché, si sa, chi ben comincia è a metà dell’opera. E poi perché papa Francesco ce lo ha spiegato con forte e asciutta eloquenza: nella Chiesa come in politica e nella società civile è infinitamente più importante (ed evangelico) avviare processi positivi e costruttivi che alzare bandiere e bandierine per segnare confini e presìdi.
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