Unione europea, una transizione da bilanciare
lunedì 9 dicembre 2024

Con il voto favorevole del Parlamento europeo alla Commissione guidata da Ursula von der Leyen la nuova legislatura europea è stata avviata. Non sarà una legislatura facile, viste sia le divisioni tra le forze politiche che sostengono la Commissione, sia la dimensione dei problemi da affrontare, anche sotto la spinta dell’evoluzione del quadro geopolitico internazionale. In agenda ci sono questioni istituzionali, cioè riforme della governance europea (come dare maggiore potere al Parlamento e ridurre il potere di veto dei singoli Governi), questioni economiche (come finanziare investimenti comuni, nella linea indicata dai Rapporti Draghi e Letta), questioni sociali (come ridurre le disuguaglianze e migliorare i sistemi educativi e di welfare). Un famoso proverbio dice che “chi ben comincia è a metà dell’opera” e allora vale la pena soffermarsi sui primissimi passi delle istituzioni e delle forze politiche europee.
Subito prima del voto di conferma della Commissione, il Partito popolare europeo (Ppe) ha votato, insieme alle “destre”, il rinvio e alcune modifiche al regolamento sulla deforestazione. Un atto interpretato come “segnale di guerra” dalle altre forze della maggioranza (socialisti, liberali e verdi), in quanto prefigura una possibile “politica dei due forni” che il Ppe intende seguire su vari dossier, tra cui quelli sul green deal. Il “fallo di reazione” si è concretizzato con la riduzione della maggioranza ottenuta da von der Leyen nel voto di fiducia rispetto a quella di luglio, dovuta al voto contrario di numerosi socialisti e verdi, nonostante il tentativo della Presidente di rassicurare questi ultimi nominando l’ex presidente del gruppo suo consulente per la transizione ecologica.
Dopo il voto di fiducia la Presidente ha annunciato che affronterà personalmente la “questione automotive”, convocando un tavolo con le parti in causa e seguendo i relativi dossier legislativi. Questa scelta sembra confermare la tendenza all’accentramento delle decisioni che gli osservatori avevano prefigurato come inevitabile data la distribuzione delle deleghe ai singoli membri della Commissione. Infatti, tale suddivisione (così come l’assegnazione delle singole Direzioni generali a supporto di questi ultimi) rende necessaria, su tutte le tematiche complesse, il coinvolgimento di diversi Commissari e Vicepresidenti, il che richiederà un continuo lavoro di coordinamento e bilanciamento da parte della Presidente, come il caso automotive dimostra plasticamente.
La ragione di una tale scelta organizzativa appare duplice: da un lato, evitare un’eccessiva autonomia dei vicepresidenti, cioè altri “casi Timmermans”, responsabile del green deal nella precedente Commissione, indicato dalle forze politiche di centrodestra come la causa di tutti i mali europei per il suo presunto approccio “ideologico” (accusa non solo infondata sul piano fattuale, ma che dimentica che i regolamenti europei vengono votati dai Governi e dal Parlamento europeo su proposta della Commissione). Dall’altro, gestire direttamente la ricerca del difficile compromesso con i gruppi parlamentari su dossier “divisivi”.
Vedremo se e quanto l’approccio centralista funzionerà, ma non c’è dubbio che esso rafforza la figura della Presidente come “capo del governo europeo”, proseguendo in questo la tendenza – indubbiamente di successo – che von der Leyen ha manifestato negli scorsi cinque anni. Non dimentichiamo, a tale proposito, che un anno fa il Parlamento europeo ha inserito nel pacchetto di riforme della governance anche la proposta di cambiare nome da “Commissione europea” a “Esecutivo europeo”, un passo che andrebbe nella direzione di creare un vero governo sovranazionale. Ovviamente, questa e altre proposte per una maggiore integrazione europea sono state bocciate da quelle stesse forze nazionaliste su cui il Ppe conta per modificare vari regolamenti approvati negli anni scorsi, seguendo l’approccio “disinvolto” mostrato nelle settimane scorse.
Insomma, la legislatura europea sarà turbolenta, a meno che, come già accaduto in passato, le crisi non inducano la politica a compiere quei salti non solo necessari, ma anche ritenuti desiderabili dai cittadini. Il sondaggio pubblicato da Eurobarometro la settimana scorsa mostra che il livello di fiducia nell’Unione europea (51%) e nell’euro (74%) è il più alto dal 2007, che quasi il 70% degli europei vuole un’Unione più forte, indipendente e resiliente, con poteri e strumenti sufficienti per difendere gli interessi economici dell’Europa nell’economia globale, dati lusinghieri per le istituzioni europee, nonostante le crisi e le difficoltà politiche. Chi pensa di tornare indietro o di non procedere alla costruzione di un’Unione più integrata dovrebbe riflettere attentamente su questi dati e sul fatto che il populismo e la voglia di affidarsi a presunti salvatori della patria porta ai disastri pagati dall’Europa e dal mondo con milioni di morti un secolo fa.
Direttore scientifico dell’Alleanza
italiana per lo Sviluppo sostenibile (ASviS)


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