Scongiurare lo stallo
giovedì 8 febbraio 2018

L'operaio montenegrino spaventerà più o meno dell’idraulico polacco? L’Unione Europea che ora guarda ai Balcani, potenzialmente pronta a diventare "a 33" (perdendo Londra e guadagnando sei nuovi Paesi) entro il 2025, rischia di fare presto i conti non tanto con nuove ondate di lavoratori comunitari in movimento quanto con un gigantismo istituzionale difficile da maneggiare. Se il grande allargamento a Est del 2004-2007 era stata una svolta quantitativa e qualitativa, con l’inclusione del "secondo polmone" continentale, la possibile nuova apertura non avrà lo stesso impatto in termini politici ed economici.

Dall’ingresso dei Paesi dell’ex Cortina di ferro è venuto un arricchimento, ma è sorto anche il "gruppo di Visegrad", ostile ai flussi migratori e maggiormente sensibile alle sirene di Trump e ad ambigue tentazioni autoritarie più che ai richiami di Bruxelles. Dalle piccole (e tra loro rissose) nazioni balcaniche, se si metteranno in linea con i requisiti comunitari per tutti i dossier aperti (diritti umani in primis), non verranno verosimilmente scossoni all’edificio europeo. L’avvio del lungo percorso (sancito martedì) ha tuttavia riportato sotto i riflettori le difficoltà di governo di una Unione che proprio ieri ha ritrovato il suo primo membro nella piena operatività politica, grazie all’accordo di grande coalizione e all’imminente varo del quarto esecutivo a guida Merkel.

L’alleanza tra Cdu e Spd garantisce all’Europa uno dei suoi pilastri e offre al presidente francese Macron l’interlocutore necessario per rilanciare le ambizioni di una Ue più coesa, integrata e capace di azione concorde ed efficace. Verrebbe da dire che ora manca soltanto l’Italia, attesa nelle urne del 4 marzo e nelle (possibili e difficili) alleanze politiche seguenti a superare pulsioni anti-europee o perlomeno euroscettiche, moneta corrente in questa campagna elettorale.

Non possono infatti che essere Berlino, Parigi e Roma a guidare l’iniziativa di un assetto innovativo, erede delle a lungo evocate "due velocità", ovvero di binari diversi lungo i quali possano procedere un cosiddetto gruppo di testa deciso a una marcia accelerata e i restanti Paesi più propensi a un’andatura moderata, il tutto mantenendo l’attuale base comune di trattati, relazioni e legami.

D’altra parte, se di Europa a due velocità si parla a livello teorico addirittura dal 1975 (rapporto Tindemans), con il Trattato di Amsterdam del 1997 è diventata realtà. Oggi, sono 19 i Paesi, sui 28 membri attuali, ad avere adottato la moneta unica, mentre la libera circolazione dell’area Schengen non è condivisa da 5 Paesi. Una via già disponibile è quella delle cooperazioni rafforzate, strumento che chiede la partecipazione di almeno nove Stati membri e impegna sulle materie prescelte soltanto chi vi aderisce, anche se pone precise limitazioni ed esclude alcuni ambiti.

Recentemente, era stata la stessa cancelliera tedesca a rilanciare l’idea di "cerchi concentrici" o di "geometrie variabili" per superare le resistenze dei populismi montanti e trovare soluzioni cooperative di alto livello, limitate a un numero ristretto di nazioni, per temi come quelli della difesa, della sicurezza e delle migrazioni. Ai quali si possono aggiungere l’industria e il mercato del lavoro. Soluzioni che per candidarsi a essere veramente un passo in avanti implicano una cessione di sovranità da parte degli Stati nazionali.

E qui cominciano le difficoltà. Perché la storia recente dice di una Germania che ha giocato, legittimamente, in primo luogo a favore dei propri interessi sulla crisi greca (ritardando il via libera agli aiuti), sul surplus commerciale in violazione a regole e raccomandazioni Ue, sulle azioni anti-congiunturali della Bce (contrastate e ritardate a lungo). Vedremo se il baricentro del governo che nascerà a Berlino nelle prossime settimane sarà più spostato verso reali concessioni, in primo luogo nei termini di politiche continentali espansive.

La stessa Francia di Macron deve ancora dimostrare nei fatti l’afflato europeista della cerimonia inaugurale del neo-presidente. Se poi consideriamo il nostro panorama, lo scenario più filo-Ue che si possa intravedere a Roma dopo le elezioni è quello di «larghe intese», in cui si cerchi faticosamente di mediare tra spinte divergenti. Proprio ciò che non serve né all’Italia né all’Europa. Un problema serio, di cui tenere seriamente conto.

Queste considerazioni fanno emergere come i buoni propositi sembrino fatalmente appesi alle contingenze di maggioranze complesse da assemblare e sempre in ascolto di opinioni pubbliche caratterizzate da una volubilità che l’era dei social media e dei sondaggi in tempo reale rende più esasperata. L’integrazione continentale accelerata, che la svolta impressa da Trump alla politica americana renderebbe urgente, non è quindi dietro l’angolo, ma non bisogna rassegnarsi allo stallo.

Anche iniziative 'dal basso' sono un’opportunità da sfruttare. L’idea di liste transnazionali per l’Europarlamento, ad esempio, potrebbe contribuire a coagulare a Strasburgo le più sincere sensibilità pro-Ue, stemperando le rigide appartenenze nazionali (proprio ieri, però, è arrivato un no in Aula). Solo un passo, ovviamente. Compiuto il quale, si dovrebbe pensare a partiti con base e programmi davvero europei. Ma per fare prendere velocità anche solo a una parte di un mastodonte qual è l’Unione, si deve pur cominciare a spingere. E il momento è arrivato.

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