martedì 18 novembre 2014
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A cosa serve avere fatto sacrifici – cessione di sovranità sulle politiche monetarie, fiscali, del cambio – per acquistare l’«ombrello» dell’euro se poi non possiamo usarlo per proteggerci quando diluvia e la crisi è più dura? Quando i Paesi membri pagano i costi sociali ed economici della mancata unione politica? Se lo domanda l’opinione pubblica euroscettica (dimenticando però che Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, l’«ombrello» l’ha già aperto una prima volta con l’annuncio della difesa «a qualunque costo» dell’euro). Ed è un fatto che la partita dell’Unione Europea si gioca moltissimo, oggi, sulla percezione di vantaggi della moneta unica, dei suoi svantaggi e dei potenziali costi e benefici di un’«uscita» dall’euro (disordinata o ordinata secondo l’ipotesi recentemente avanzata da Stefano Fassina). Si gioca tutta qui, con l’Ue e soprattutto l’Eurozona, sfidata a dimostrare (o a rendere percepibili) i benefici tangibili della propria esistenza. E con un "partito sfascista" che rischia di ingrossarsi come la piena di un fiume e che ha ormai identificato nell’uscita dalla moneta unica la scorciatoia per risolvere tutti i problemi del nostro Paese. Uno dei limiti ideologici del "partito sfascista" italiano è quello di minimizzare i costi della rottura dell’euro. Ci siamo entrati per mettere al sicuro la "barchetta" della lira dalle tempeste della finanza globale, e i nostri esportatori hanno salutato con favore il crollo della volatilità dei cambi e i minori costi necessari per la copertura da tali fluttuazioni. L’uscita dall’euro vorrebbe dire riprendere il mare aperto della speculazione internazionale con il nostro piccolo vascello, facendo unicamente affidamento sulla reputazione del nostro Paese.Se, però, in una casa c’è odore di fumo, prima di buttarsi dal balcone si cerca di spegnere l’incendio o ci si dirige verso le scale di sicurezza. Soprattutto se le opinioni divergono persino sul piano a cui ci si trova (per gli antieuro siamo all’ammezzato, per molti altri al terzo o al quarto piano). Un altro difetto del "partito sfascista" è avere una visione totalmente statica della situazione. Se l’Eurozona è stata gestita maldestramente negli ultimi anni per l’ubriacatura del rigore (che siamo stati i primi e tra i più tenaci a stigmatizzare su queste colonne) non è detto che sarà sempre così. Al contrario, proprio quando la gestione è così marcatamente maldestra i margini di miglioramento sono enormi. Margini che cominciamo a intravedere dalla lettera che Jean-Claude Juncker ha inviato ai presidenti Martin Schulz (Europarlamento) e a Matteo Renzi (Euroconsiglio) e che "Avvenire" ha reso nota domenica scorsa. La lettera mostra chiaramente che il presidente della Commissione di Bruxelles, fors’anche perché incalzato dal lancio da parte di grandi gruppi editoriali internazionali dello scandalo Luxleaks, cerca per via politica rilancio e sponde, dimostrandosi pronto a superare la logica cieca del "rigore", coerentemente con l’appello assordante dell’ultimo G-20. Juncker, in quella lettera, porta finalmente al primo posto il piano per il rilancio della crescita e del lavoro (che include il piano dei 300 miliardi di rilancio della politica fiscale Ue per il quale Renzi ha già inviato una "lista della spesa" per circa 40 miliardi di investimenti prioritari del nostro Paese), parla di un’unione monetaria «più profonda e più equa» a partire dalla «review», una revisione, del Fiscal Compact già quest’anno e si spinge anche a considerare al quarto punto misure contro frodi ed evasione fiscale.Si tratta ancora di enunciati generali, che saranno messi alla prova nei prossimi mesi, ma sono indubitabilmente passi in direzione di alcune delle mete indicate dall’appello firmato da più di 350 economisti italiani e stranieri che include nomi illustri delle più disparate culture politiche. Pertanto vedremo se la politica monetaria «più profonda e più equa» si tradurrà in un allentamento monetario per stimolare l’economia, un quantitative easing all’americana, o se la «review» del Fiscal Compact metterà fine alla follia del rigore senza crescita. La sfida non è solo quella di rendere concreti questi enunciati generali capovolgendo il corso della "grande crisi", ma anche di mutare la percezione sempre più euroscettica dell’opinione pubblica dei Paesi membri. Un problema di sostanza, e anche di comunicazione. L’euro non è un fine né un totem, bensì un mezzo utile e che tale dev’essere. Non è giusto farne un idolo da difendere a prescindere. Ma poiché distruggere un vaso in mille pezzi è molto più facile che costruirlo (o ricostruirlo) è bene fare tutto il possibile per mettere l’immensa forza economica europea al servizio del tentativo di costruire un’Europa migliore.
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