sabato 15 gennaio 2011
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C’è un giorno che sarà per sempre impossibile da dimenticare. 23 giugno del 1996, Berlino, un pomeriggio piovoso, e freddo. Giovanni Paolo II, già un po’ curvo, già affaticato nel passo, a fianco di Helmut Kohl appariva piccolo e infinitamente stanco. Ma nel momento in cui, a piedi, passavano sotto la Porta di Brandeburgo, là dove un tempo il Check Point Charlie segnava simbolicamente quella che si pensava fosse la frattura tra il bene e il male (tra tutto il bene e tutto il male), fu come se un’ondata enorme si riversasse sulla piazza. Un’energia capace di paralizzare, per un istante interminabile, l’applauso che sarebbe esploso di lì a un secondo. E nessun dubbio, tra il monumentale cancelliere tedesco e il Papa zoppicante, su chi dei due fosse il gigante. Si parla di ondata, e non è tanto per dire. Per chi si trovava a cento metri da quella scena, l’impressione fisica fu esattamente quella. Era, quel 23 giugno, il giorno in cui Papa diventava "Giovanni Paolo il Grande"; il giorno in cui il mondo consumava il passaggio alla piena consapevolezza dell’enormità di quel che ancora era tutto da costruire, come tra un milione di polemiche Wojtyla aveva predetto, avvertendo che nel 1989 non era finita la storia. Il giorno in cui finalmente si capiva che quell’uomo non aveva mai lottato "contro" niente, ma sempre e solo "per" l’uomo. Ma tutto questo sarebbe venuto dopo. Lì, in quel momento, c’era solo quella quasi violenta consapevolezza della forza che quell’uomo, quel Papa che aveva portato il successore di Pietro a scendere fisicamente tra la gente, emanava. Impossibile abituarsi, a quella forza. Neppure dopo oltre vent’anni spesi a seguirlo praticamente ovunque, e tante volte a tu per tu. Ti guardava negli occhi e non riuscivi quasi neppure più a parlare, ti perdevi e basta. Era poi sempre lui a "svegliarti", magari con un battuta. Verrebbe da dire: magnetismo. Ma non era questo. E che cosa? Mi trovai, una volta, a pochi passi da lui che parlava con Madre Teresa. Letteralmente non ci sono parole per raccontare di quel fitto colloquio, le mani nelle mani. Quando si allontanò, mi accorsi che tutto era durato meno di un minuto. Erano sembrate ore. E ancora, nel ricordo, lo sono. Un’energia vitale capace di cristallizzare il tempo, polarizzando ogni attenzione. Che lo accompagnava sempre, e ogni tanto, in qualche modo, per qualche motivo, "esplodeva". Come quel giorno a Berlino. Come durante la messa allo stadio di Sarajevo, momento di un’intensità sconvolgente, dove i brividi lungo la schiena non erano causati dalla bufera di neve arrivata, a metà aprile, chissà da dove. O a Gerusalemme, con quella sua mano tremante appoggiata alla fessura tra i grossi blocchi di pietra del Muro occidentale, a indugiarvi per pochi istanti, appena deposto il suo piccolo foglietto bianco. E ancora la Via Crucis del 2003, quando, buttati via i fogli del discorso già pronto, dice: "Ecce lignum crucis...", e ne improvvisa un altro, che diventerà il suo testamento spirituale. E fino alla preghiera a Lourdes, davanti alla grotta, nell’ultimo suo viaggio dell’agosto del 2004. Senza più forze. Già, praticamente, senza più voce. Aggrappato con tutto se stesso, fino a far impallidire le nocche delle sue deboli mani, all’inginocchiatoio da cui scivola. Ma è voluto venire qui per congedarsi dalla Madre. Non demorde. Non vuole. Non può. A pochi passi, vedo colleghi piangere, come me, come tutta la folla attorno; come se tutti insieme volessimo restituirgli un po’ della forza ricevuta in tanti anni, per aiutarlo ad arrivare alla fine. Ci arriva. Esausto. Energia, magnetismo... non c’è, forse, un modo per definirlo. Forse, è proprio questa la forza dei Santi.
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