L’elefantessa che ci consegna pura poesia
domenica 6 novembre 2022

Ha girato per due-tre giorni, nel web, l’immagine di una elefantessa che, in Namibia, cammina con un elefantino che non ce la fa più e barcolla, cade, si rialza, con sempre maggior fatica, finché cade definitivamente e resta lì. Che succede? Succede che l’elefantino muore di sete, da chilometri non s’incontra un goccio d’acqua, le forze che perde non se le rifà, ormai è a zero, e fra poco andrà sotto zero. La madre lo sa. Gli sta di lato come una muraglia, per reggerlo in piedi quando barcolla, e impedire che precipiti lungo disteso. Parlotta, la madre, bofonchia qualcosa, che noi non sentiamo.

Poi, ed è la scena più straziante, allunga la proboscide sopra la schiena del piccolo, lo avvolge, gli passa sotto la pancia, con la punta della proboscide torna di qua, sicché adesso ha tutto il figlio abbracciato col suo lungo naso, lo solleva tenendolo in equilibrio, fa pochi passi verso un grande albero, e delicatamente molla il figlio all’ombra. Il figlio però resta immobile lì dov’è mollato, non ha la forza per trascinarsi di qualche metro, se vivere è una questione di forza si capisce che questo elefantino non vive ma si lascia esistere, sarà quel che sarà. È su questo punto che si soffermano tutti i commenti dei media che hanno riportato la scena. Perché la madre continua ad emettere suoni, sbuffi, fremiti.

Che io interpreto così: capisce che il figlio sta morendo e non vuole che muoia. In quel momento sento la fraternità con la elefantessa, fa quel che farebbe una madre umana, soffre e parla, il fatto che noi non comprendiamo quel che dice non significa che non stia dicendo qualcosa. La madre elefante ha capito non soltanto che il figlio elefantino sta morendo, ma anche che sta morendo per tutto quel caldo, tutto quel sole, tutta quella sete. Perciò istintivamente solleva il corpo del figlio e lo trasporta all’ombra, all’ombra starà meglio. Ma io sono italiano e vedendo quella scena, quella morte e quell’ombra, sento salirmi alla memoria una domanda che già un altro si pose nella mia lingua, e che la mia lingua ha trasmesso da lui a me: « All’ombra…, è forse il sonno della morte men duro?».

L’elefantessa pensa di sì. Il poeta che ha scritto quei versi pensa di sì. E dunque io penso di sì. L’elefantino, anche se morto, sta meglio all’ombra che al sole. E la madre elefantessa che continua a parlargli credo che sia questo che vuole dirgli. Dicendogli questo, resta con lui. Lo insegue, e lo segue, nell’aldilà. I suoni che emette questa elefantessa noi non li sentiamo, non li registriamo, non li conserviamo, ed è un peccato, perché quei suoni sono la lingua degli elefanti, la loro poesia, essendo la poesia il linguaggio dei vivi che parlano ai morti. «Silvia, rimembri ancora quel tempo della tua vita mortale…?»: ma Silvia è morta, e rivolgersi ai morti, far loro una domanda e attendere una risposta, è possibile solo poeticamente. Gli elefanti non hanno una loro storia della poesia. Se l’avessero, questa elefantessa e questo elefantino sarebbero due grandi autori.

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