Quanto sta avvenendo a Kobane, e in Medio Oriente negli ultimi mesi, spinge a guardare la cruda realtà per ciò che è, a riconoscere che non siamo più di fronte a sacche d’inciviltà. Si perpetrano efferati delitti contro città e villaggi interi – gloriandosi e ostentandone gli oscuri riti – si schiavizzano persone, gruppi di popolazione, si cancella con sfacciato orgoglio ogni parvenza di libertà religiosa, si costringe con la forza ad abiurare le proprie convinzioni e appartenenze. Siamo di fronte a una malattia mortale che si va estendendo in territori interi, in Africa e in Medio Oriente, con gruppi armati o strutture che si autodefiniscono 'Stato', dirigono un giro di affari che lucrano e creano complicità, con appoggi politici più o meno conosciuti, sempre inconfessabili. Siamo di fronte – questo è il fatto nuovo – a pezzi di Stato, e territori, nei quali si agisce fuori d’ogni principio di umanità, con metodi terroristici, con una ferocia esibita che supera l’immaginabile e ricaccia indietro la storia fino ai primordi quando si scatenavano gli istinti peggiori dell’uomo e di una natura incontrollata. Non c’è principio etico che valga, per i nuovi barbari, né di convivenza civile, tantomeno di legalità, non c’è nulla che colleghi in qualche modo i loro comportamenti al resto della comunità umana. Qualche giorno fa, sul 'Corriere della Sera', Angelo Panebianco ha scritto che sotto assedio è l’Occidente. In realtà, sotto assedio è l’umanità intera, che vede scorrere un film con immagini che non trovano posto neanche nelle peggiori descrizioni dell’horror. Eppure, ciò che più colpisce la ragione e la coscienza di tutti noi è l’incapacità della comunità internazionale, e delle Istituzioni che la governano, di reagire, contenere, cancellare, queste forme d’impazzimento quando ancora è possibile, impegnarsi per salvare vite umane da omicidi, torture di massa, genocidi, dalla schiavitù in cui si riducono giovani, donne e uomini, senza che alcuno li soccorra. Anche gli Stati Uniti che hanno tentato una reazione militare, hanno dovuto ammettere gravi errori di valutazione e di strategia agli inizi dell’organizzazione dell’entità che si è chiamata Isis e oggi di definisce Is, Stato islamico. Ma oggi tutti si interrogano sulle responsabilità degli Stati confinanti con i territori martoriati, dell’Onu che per dovere nativo e istituzionale dovrebbe tutelare la pace, difendere i diritti più elementari, soccorrere le popolazioni a rischio di massacro ed estinzione. E tutti ci interroghiamo sull’incapacità della nostra Europa di saper valutare, parlare, agire, persino quando il disastro è alle sue porte: un grande e terribile tema che dovrebbe scuotere la nostra apatia. La Segreteria generale dell’Onu ha lanciato un appello accorato perché chiunque può fermi la tragedia, soccorra le popolazioni violentate, sconfigga i terroristi. Ma l’Onu che cosa ha fatto sino ad oggi? Staffan de Mistura, inviato speciale delle Nazioni Unite nella zona di crisi, ha collegato quanto sta avvenendo tra la Siria e l’Iraq alle tragedie verificatesi nei territori della ex Jugoslavia – prima in Bosnia-Erzegovina, poi in Kosovo – dove intervennero Stati e coalizioni di Stati, legittimati in vario modo dall’Onu. Ma se è vero che l’Iraq è a rischio di conquista da parte dell’Is, e la Siria è da anni sull’orlo dell’implosione, la memoria iugoslava impallidirà rispetto a ciò che potrà accadere in Medio Oriente, dove già oggi assistiamo a delitti e decimazioni, fuga di centinaia di migliaia di profughi, annientamento di comunità di cristiani, e altre minoranze religiose ed etniche. Cosa si deve aspettare ancora perché ci si accordi per ripristinare una legalità minima, dire una volta per tutte (anche per il futuro) che l’umanità non può più tollerare il ripetersi delle stragi di cui si macchiarono i totalitarismi del Novecento e oggi sono realizzate da bande di estremisti, fondamentalisti, con connivenze di Stati e finanziatori non tutti occulti? L’aggravante odierna sta in quel coacervo di interessi e complicità che sembra non si vogliano svelare e colpire: ma così facendo, la politica e il governo del mondo si degradano, tradiscono la propria missione, lasciano gli Stati e i popoli più deboli alla mercé di nuovi potentati che si mostrano spavaldi e sempre più aggressivi per l’ignavia degli altri. Molte Chiese hanno chiesto di intervenire, di far cessare l’orrore, e papa Francesco ha ripetutamente affermato la necessità di «fermare» l’aggressore. Il segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin, ha ribadito che si deve fermare in tutti i modi «proporzionati» chi aggredisce le minoranze, e occorre farlo nell’ambito dell’Onu: «Che mondo abbiamo davanti – si è chiesto ancora – se questo è il modo di trattarci gli uni gli altri?». Questa domanda drammatica sovrasta tutte le altre, supera ogni tattica o strategia militare: minaccia di esaurirsi quel tratto di umanità che è cresciuto nella storia dei popoli, che le Carte dei diritti umani hanno rafforzato ed elevato a livelli di civiltà dai quali pensavamo che non si potesse regredire. Oggi sappiamo che così non è. Più che frenare la regressione che stiamo vivendo, sembra che l’umanità debba ricominciare daccapo, scrivendo di nuovo l’alfabeto dei rapporti tra le persone, tra i popoli, tra gli Stati.
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