martedì 4 ottobre 2016
I problemi del colosso, "indebitato" in derivati per una cifra pari a tre volte il Pil europeo, rappresentano l'ultima tappa di una crisi globale del sistema, iniziata nel 2007 con il fallimento della Lehman. (Leonardo Becchetti)
Deutsche Bank, una lezione tedesca
COMMENTA E CONDIVIDI

«Niente paura I nostri traders sono tra i più sofisticati al mondo», ha affermato Deutsche Bank per cercare di calmare i mercati a seguito delle preoccupazioni sulla sua sostenibilità dopo la multa Usa, il minimo storico in Borsa e la fuga di alcuni hedge fund. È proprio questa dichiarazione che preoccupa. Non c’è ovviamente da gioire per i problemi della banca tedesca che è esposta in derivati per un valore che supera di 15 volte il Pil tedesco e 3 volte il Pil dell’intera Unione Europea, perché una sua eventuale crisi coinvolgerebbe tutti. E da tempo sottolineiamo – assieme ad altri autorevoli colleghi economisti – come le autorità di regolamentazione siano state troppo indulgenti in questi anni verso un istituto che ha la leva – il rapporto tra capitale proprio e capitale di debito – più squilibrata in Europa e descrive la propria condizione patrimoniale con sistemi di rating interno molto sofisticati, ma progressivamente sempre più scollati dal dato crudo del rapporto, appunto bassissimo, tra capitale proprio e capitale di debito. Con il caso Deutsche Bank il pendolo della storia dei problemi bancari rischia di essere sul punto di completare una nuova oscillazione. Siamo partiti nel 2007 con la crisi finanziaria globale scatenata dai problemi delle banche troppo grandi per fallire (Lehman in primis).

Il dossier dei "saggi" della Ue (rapporto Liikanen) facendo una rassegna della letteratura economica in materia sottolineò, allora, come oltre i 50 miliardi di attivo (livelli di una banca medio-grande, ma non grande o grandissima) non esistono economie di scala, ovvero benefici economici derivanti dalla crescita dimensionale. Eppure, dopo pochissimo tempo, il monito del rapporto Liikanen è stato silenziato dai cori che inneggiavano anche nel nostro Paese al "risiko", al consolidamento, alla crescita dimensionale vista come panacea indiscussa dei problemi delle banche.

Con il rischio di giri di valzer senza senso simili a quelli di quei calciatori che cambiano continuamente squadra a prezzi esorbitanti, arricchendo soprattutto i loro procuratori. Vengono in mente le acquisizioni non ben digerite e la mania di gigantismo della Popolare di Vicenza o l’ancora più clamorosa acquisizione di Antonveneta da parte del Monte dei Paschi che segnò l’inizio della crisi che ha distrutto la ricchezza di un territorio accumulata con il lavoro di secoli e che rappresenta ancora oggi il punto debole non ancora risolto del nostro sistema bancario. Se nessuno ai tempi del fallimento di Lehman pensò a cancellare il genere "grande banca d’investimento" nonostante i problemi del modello (soprattutto quando la banca è anche banca commerciale), ben presto il coro della comunicazione ha spostato la sua attenzione sui limiti del modello "banca di territorio a voto capitario" con il progetto stavolta di cancellarla dal nostro paese.

Per fortuna – grazie anche all’impegno di questo giornale – ciò non è accaduto del tutto e l’obbligo di cambiare pelle è stato circoscritto (sia pure con un criterio quantitativo che non piace e non convince) agli istituti con totale dell’attivo superiore agli 8 miliardi. La situazione oggi è cambiata e comincia ad esserci consapevolezza nella nostra classe politica di quanto anche qui si afferma da tempo: lo sviluppo locale ha bisogno di banche di territorio non massimizzatrici di profitto. Così è in tutte le economie più sviluppate del mondo incluse quella americana e tedesca. Per la semplice e inconfutabile legge economica che spinge le grandi banche massimizzatrici di profitto a inseguire margini elevati per creare valore per i loro azionisti. E dunque tra tutte le attività possibili a disposizione, a sfuggire (potendo) come la peste i prestiti alle piccole imprese e alle imprese artigiane. I cui volumi infatti nel nostro Paese continuano a calare come confermano gli ultimi dati flash disponibili di Confartigianato che rielaborano le statistiche di Banca d’Italia. I sistemi economici hanno dunque bisogno di un ecosistema finanziario ricco e diversificato, fatto di grandi banche che sostengono i processi d’internazionalizzazione delle medio-grandi imprese di successo e di banche di territorio che aiutano il "corpaccione" del Paese (imprese artigiane, piccole e medie imprese non internazionalizzate) a restare a galla e a uscire dalla crisi. L’evoluzione migliore di queste ultime è quella di banche sociali di mercato che negli ultimi tempi hanno dato ampia prova in Italia e in molti altri Stati del mondo di saper impiegare una parte molto maggiore del proprio attivo nel credito, con sofferenze più basse della media del sistema favorendo l’accesso ai prestiti a imprese razionate dal resto delle banche.Non ha senso dimenticarci di questo, magnificare soltanto le grandi imprese 'di successo' pensando che esauriscano il parco degli attori economici perché non è così e perché ogni impresa adulta 'di successo' lo è e lo può diventare (e restare) nella misura in cui ha avuto o avrà un’infanzia felice. È lecito sperare che la lezione della storia – anche se in tedesco – sia questa volta ascoltata e compresa portando a una regolamentazione (e a una comunicazione economica) che capiscano fino in fondo che la tutela della biodiversità bancaria è un valore fondamentale e va preservata con scelte regolamentari non 'a taglia unica' ma adatte a curare i limiti e le debolezze di ciascuna specie.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: