giovedì 18 novembre 2010
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Avederlo nei suoi primi piani dilatati, Roberto Saviano sarebbe perfetto in un film – poniamo – ambientato nel 1200: magari intitolato "La crociata dei bambini", per guidare con piglio millenaristico e braccia levate quell’impresa crudele divisa fra storia e leggenda che definisce un’epoca e un mondo. Argomenta e precisa, dettaglia e corregge, aggiunge e postilla, nelle sue disamine in cui la letteratura diventa discorso, e la dimostrazione si fa monologo d’attore: tanto è vero che cita, parlando, «il suo pubblico», come potrebbe fare un attore che a lui in qualche modo si apparenta per stile, Marco Paolini, che tuttavia nelle sue recite aggiunge all’impeto un sottile e indispensabile soffio di ironia.Ma Saviano predica, come un vecchio comiziante infervorato che placa con l’occhio triste l’ansia di persuadere: e in un mondo come il nostro, in cui la parola è abusata ancor più dell’immagine, l’effetto è straniante, sa di antico, l’omelia si fa citazione e non tocca il cuore, ma tende a stupire e a far dire agli spettatori più teneri: «Com’è bravo!» piuttosto che «Come ha ragione!». E le parole si tendono, si allungano, si snodano senza fine, la tentazione dell’eloquio vince la necessità della sintesi: molti hanno commentato, nelle due puntate di Vieni con me, «Come è lento!» oppure «Che noia!». Ecco allora, alla fine del "pezzo", Fazio che si prodiga come maître cortese, che elenca e introduce, abbraccia e si commuove: ed ecco ancora l’alternarsi, in un pastiche da vaudeville, il comico impegnato, che si sbraca in provocazioni di maniera e si fa corredare di un balletto sgradevole, e le testimonianze di chi ha affrontato problemi e di questi elenca le fasi. Canzoni e interviste, tutte consone, come piglio e contenuto, alla provocazione polemica: e poi la caduta di gusto delle dichiarazioni di coloro che la vita han provato con atroci dilemmi e che ancora pesano, si crede, le conseguenze segrete e infuocate di scelte terribili. Qui la commistione diventa crudele, l’eccitazione calcolata da una regia che fa del programma una missione appare di colpo un opaco sfondo di dolori privati in cui tutti temono di doversi affacciare. E lo spettatore, scaraventato in un pozzo di malinconia e di sconforto, resta perplesso davanti al sorriso di Fazio, all’aria festosa di chi accoglie queste vittime come dei trionfatori.Due ore: due ore in cui l’amalgama di toni e di temi appare confuso, legato soltanto dal filo rosso di una non sottaciuta aggressività polemica che cerca conferme. Due ore in cui il richiamo dei nomi e dei personaggi supera la necessità di un equilibrio formale che la regia non riesce a produrre: e alla fine, quando la pubblicità corona la conclusione con la sua fittizia letizia, resta in chi abbia seguito con diligente fedeltà il ricordo di due storie amarissime, di una lenta sconfitta della speranza che lascia una scia di indeterminata ma tenace tristezza.
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