giovedì 6 dicembre 2018
Il compito di Cop24: fermare il cambiamento climatico limitando l’aumento della temperatura media terrestre Bisogna passare dalle fonti fossili a quelle rinnovabili
Una conversione energetica per salvare il nostro Pianeta
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È ormai trascorso un quarto di secolo da quel lontano 12 giugno 1992, quando a Rio de Janeiro venne firmata la Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, nota come Unfcc. Un documento che se da una parte riconosceva che il Pianeta stava andando incontro a rapidi cambiamenti climatici anche a causa dell’agire umano, dall’altra impegnava i Paesi firmatari ad attivarsi per arginare il fenomeno. L’accordo vincolava le parti anche a incontrarsi periodicamente per fare il punto sugli impegni assunti e concordarne di nuovi e collettivi. Da allora gli incontri, anche detti Cop, Conferenze delle parti, sono stati 23. Il 24° si è avviato domenica scorsa, 2 dicembre, a Katowice, Polonia, con l’accorato appello del segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, che ha parlato di un «mondo fuori rotta» sul clima e della necessità di interventi politici importanti a breve scadenza.

È noto che i cambiamenti climatici sono dovuti all’aumento della temperatura terrestre che dall’era preindustriale a oggi è salita di quasi un grado centigrado. Un innalzamento apparentemente minimo che però ci sta già facendo sperimentare situazioni apocalittiche come testimoniano i lunghi periodi di siccità segnati da incendi indomabili a cui fanno seguito straripamenti, allagamenti, frane di intere colline a causa di uragani e bombe d’acqua. È altrettanto noto che la temperatura terrestre è condizionata dai gas a effetto serra, la cui componente principale è l’anidride carbonica, in sigla CO2. A inizio Novecento l’umanità ne produceva 2 miliardi di tonnellate all’anno, oggi ne produce 35 miliardi di tonnellate. Nel 2017 sono cresciute di un ulteriore 2%: continuando di questo passo da qui al 2100 la temperatura terrestre potrebbe crescere di altri 4 gradi centigradi con effetti catastrofici, non ultimo lo scongelamento delle calotte polari e conseguente inondazione di molte città costiere a causa dell’innalzamento dei mari.

Durante Cop21, che si tenne a Parigi nel dicembre 2015, tutti i capi di governo convennero che per evitare all’umanità disastri imperdonabili, bisogna impedire alla temperatura terrestre di salire oltre 2 gradi centigradi rispetto all’era preindustriale. Obiettivo possibile che però richiede la graduale riduzione delle emissioni di CO2 in eccesso fino alla loro totale eliminazione entro il 2060. E qui subito iniziano le difficoltà per la diatriba innescata rispetto a chi debba cominciare per primo, considerato che il mondo è attraversato dal profonde disuguaglianze energetiche. In cima alla lista degli energivori si trovano i sauditi con 294 gigajoule a testa all’anno, seguiti a ruota dagli statunitensi con 290 gigajoule e quindi dagli australiani e dai russi. Gli europei si trovano a debita distanza con 130 gigajoule, e i cinesi sono a 99, mentre gli indiani a 28 e gli etiopi a 22. Perfino i nigeriani, che pure dispongono di un mare di petrolio, hanno un consumo procapite annuo di 31 gigajoule. Al colmo delle disparità non dobbiamo dimenticare che nel Sud del mondo oltre un miliardo di persone non dispone di energia elettrica, mentre tre miliardi cucinano e si scaldano con sistemi dannosi per la salute.

La Energy Transitions Commission ha calcolato che per uno stile di vita in linea con gli indicatori medi dello sviluppo umano servono almeno 100 gigajoule all’anno, di conseguenza è necessario abbassare gli opulenti e innalzare i miseri se vogliamo stabilizzare il clima nel rispetto dell’equità. Lo studio della Commissione non dice come si possa operare un tale bilanciamento, ma sostiene che per disporre di una quantità di energia sufficiente per tutti i bisogni umani, senza provocare ulteriore febbre al Pianeta, è necessario tagliare il cordone ombelicale dai combustibili fossili che sono responsabili dell’80% di tutta la CO2 in eccesso prodotta a livello globale. La parola magica è 'conversione energetica'. L’energia che utilizziamo si trova sotto varie forme: prevalentemente come gas per il riscaldamento, come benzina per i trasporti, come energia elettrica per le esigenze domestiche. Oggi solo il 20% dell’energia che utilizziamo è sotto forma di energia elettrica, ma secondo la Energy Transitions Commission, questa quota dovrebbe diventare molto più alta, addirittura al 100% se vogliamo liberare il nostro futuro dall’eccesso di CO2. Per la semplice ragione che ormai disponiamo di tecniche che ci consentono di ottenere energia elettrica da fonti non fossili come il sole, il vento, l’idroelettrico. Si tratta delle famose fonti rinnovabili che oggi, però, contribuiscono ancora solo per il 26% alla produzione globale di energia elettrica. E mentre l’idroelettrico partecipa per il 16% e il vento per il 6%, il sole, che è l’energia più diffusa contribuisce appena per il 2%. Evidentemente è su queste fonti che dobbiamo puntare se vogliamo vincere la scommessa con il futuro.

Secondo Irena, l’Agenzia internazionale delle energie rinnovabili, con un serio piano di riconversione energetica, da qui al 2050 potremmo raddoppiare la produzione globale di energia elettrica e nel contempo ridurre le emissioni di CO2 dell’85%. Con un effetto positivo anche per l’occupazione. È stato calcolato, infatti che mentre il settore dei combustibili fossili perderebbe 8 milioni di addetti, quello delle rinnovabili ne assorbirebbe 19 milioni, con un saldo positivo di 11 milioni di nuovi posti di lavoro. Il punto critico ovviamente riguarda gli investimenti, il cui fabbisogno, da qui al 2050, è stimabile in 15mila miliardi di dollari, 500 miliardi all’anno. Una cifra importante, ovviamente, che però va messa a confronto con le perdite provocate dall’inattività. Secondo vari studi, se non facciamo niente, i cambiamenti climatici potrebbero provocare ogni anno danni pari al 5% del prodotto lordo mondiale. Che tradotto in termini monetari fa 3.500 miliardi di dollari all’anno, secondo i valori di oggi, sette volte di più della somma necessaria per la conversione energetica.

Tutti ricordano la celebre frase 'whatever it takes' pronunciata da Mario Draghi nel 2012 al tempo in cui l’euro era assediato dalla speculazione: «La Banca Centrale Europea farà tutto ciò che servirà per proteggere l’euro». E difatti venne salvato. Con un investimento altissimo, in termini di emissione di moneta e acquisto di titoli di Stato (per la Bce 60 miliardi di euro al mese, all’inizio del piano). Oggi bisognerebbe fare la stessa affermazione nei confronti del Pianeta assediato dai cambiamenti climatici. Cominciando, per quanto riguarda l’Italia, dal recupero dei 16 miliardi di euro che lo Stato perde ogni anno per le agevolazioni fiscali concesse sull’acquisto di nafta e cherosene affinché imprese e compagnie aeree possano procurarsi a buon mercato quei combustibili fossili che ci siamo impegnati a mettere al bando.

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