giovedì 13 novembre 2008
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Sono andati a cercarle a casa loro, nel quartiere al-Qahira di Mosul, e le hanno assassinate a colpi di pistola. Lamia Sobhy e Walaa Sobhy Salloha sono morte così, colpite da una squadraccia che ha anche piazzato una bomba sulla soglia della loro casa con la quale hanno ucciso due dei poliziotti poi accorsi. La campagna per far fuggire i cristiani dalla provincia di Niniveh, di cui Mosul è la capitale, non conosce soste. Ed è una campagna scientifica, mirata, organizzata, spietata. Dall'inizio di ottobre sono già stati uccisi 16 cristiani, mentre 2.000 famiglie (per un totale di oltre 12 mila persone) hanno lasciato la città per disperdersi nei villaggi della regione o ancora più in là, lungo i confini con la Siria e la Turchia. La strategia del terrore colpisce ogni categoria e ogni età: religiosi e professionisti, medici e operai, anziani e giovanissimi come il ragazzo di 15 anni che pochi giorni fa è stato ucciso con un colpo in fronte. I contorni brutali della tragedia non devono trarci in inganno. Non siamo di fronte a una serie di pogrom che, pur essendo più o meno eterodiretti, affondano le radici nell'ignoranza o nell'odio etnico e religioso, ma piuttosto a una battaglia politica che ha scelto lucidamente lo stragismo come proprio strumento. Nella provincia di Niniveh vivono 250 mila cristiani, dei quali 50 mila (su 450 mila abitanti) nella sola Mosul. Molti di loro si sono trasferiti qui negli ultimi anni, per sfuggire alle violenze che dominavano Baghdad e la regione centrale dell'Iraq. Il loro arrivo, che s'incrociava peraltro con il ritorno dei curdi un tempo cacciati dalle campagne di arabizzazione forzata di Saddam Hussein, ha spostato l'equilibrio demografico di una zona che nel frattempo, a causa dei suoi bacini petroliferi, diventava cruciale per il futuro del Paese. Sulla pelle dei cristiani oggi crudelmente si giocano almeno due partite politiche. Quella tra il governo centrale di Baghdad, a predominanza sciita, e il governo regionale del Kurdistan, che si contendono le ricchezze petrolifere. Quella tra gli arabi, che non vogliono essere ricacciati a Sud verso le sabbie improduttive del deserto, e i curdi che vogliono invece allargare i confini del Kurdistan. I cristiani hanno a lungo cercato una loro neutralità, che non li ha però messi al riparo da soprusi e violenze. In passato furono i peshmerga ("Quelli che affrontano la morte", i miliziani curdi) a impedir loro di votare alle elezioni regionali, bloccando i seggi o distruggendo le schede elettorali. Oggi è il governo centrale a negare ai cristiani una degna rappresentanza, facendo approvare dal Parlamento una legge che riserva loro solo 3 seggi sui 144 dei consigli provinciali. Alla ricerca di una degna soluzione politica, la comunità cristiana della piana di Niniveh si è inevitabilmente divisa tra coloro che preferiscono la sovranità del governo centrale e coloro, invece, che chiedono la costituzione di una diciannovesima provincia a statuto speciale, centrata appunto su Mosul, gestita dai cristiani e amministrativamente collegata con il Kurdistan. Nelle ultime settimane si sono avute diverse dimostrazioni a favore di questa seconda ipotesi e proprio a questo fatto molti ora collegano gli ultimi scoppi di violenza. Il tutto aspettando quel referendum sul futuro di Kirkuk, altro centro petrolifero poco più a Sud di Mosul, che nessuno vuole davvero organizzare per paura di scatenare una vera guerra civile. Dopo tutte le analisi, comunque, restano i fatti. Ed è indiscutibile che i cristiani sono il bersaglio, la violenza contro di loro cresce, l'indifferenza del resto del mondo non cala. E che il governo di Baghdad non arriva neanche vicino all'obiettivo elementare: garantire loro un livello minimo di protezione e sicurezza.
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