domenica 24 luglio 2011
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Coma ad Oklahoma City nel 1995 e se possibile persino peggio: perché Anders Behring Breivik, l’emulo scandinavo di Timothy McVeigh, il responsabile della carneficina norvegese di venerdì pomeriggio, rischia di essere un cane sciolto, non così organico ai gruppi della destra neonazista o alle milizie suprematiste bianche come invece lo era l’autore della strage del 1995. Un "fondamentalista cristiano" è stato sommariamente definito dalle fonti di polizia (sorvolando invece sulla sua affiliazione massonica), quasi a voler trovare un contrappeso comunicativo abbastanza forte a quella pista del "fondamentalismo islamico" che era stata inizialmente seguita, ancora una volta come avvenuto ad Oklahoma City. Fa riflettere che nelle nostre società aperte, ancor di più in quelle maggiormente tolleranti del Nord Europa (dalla Norvegia alla Finlandia, dalla Danimarca all’Olanda) le posizioni più estremiste sembrino trovare alimento. Sarebbe ovviamente sbagliato fare d’ogni erba un fascio, mettendo sullo stesso piano il sacrosanto diritto di esercitare la libertà di parola dei partiti della destra olandese, norvegese e finnica con l’azione omicida che mira a imporre con la violenza la propria conformità (si pensi all’omicidio di Pym Fortuyn ad opera di un fanatico islamico) o a fare strage di innocenti per rivendicare spazio alle proprie idee, come è avvenuto ieri. E bene ha fatto il premier norvegese a chiarire fin da subito che la Norvegia resterà un Paese aperto, liberale e solidale. Ma rimane il fatto che proprio laddove il modello meritoriamente perseguito è stato quello dell’integrazione, dell’accoglienza e della diffusione del benessere sembra di registrare un fallimento più scoraggiante. Più scoraggiante non perché l’ipotesi della chiusura, dei muri e delle cannoniere sia migliore – tutt’altro – ma perché se neppure in questo modo si è riusciti ad eradicare la malapianta dell’odio, dell’intolleranza, del "noi contro loro", allora la strada da fare è ancora tantissima e forse va radicalmente ripensata. Fece scalpore, qualche mese fa, l’affermazione di David Cameron circa il "fallimento del multiculturalismo" (già sottolineato anche da Angela Merkel). Che si convenga o meno con la posizione del premier britannico, questo concetto è stato spesso evocato in passato a proposito delle difficoltà di inserimento, talvolta della programmatica non volontà di inclusione, delle comunità musulmane nel tessuto sociale e culturale dei Paesi occidentali. Con crescente frequenza ci troviamo invece a interrogarci sul fallimento di questa pratica a partire delle reazioni, non necessariamente violente anche se queste ultime preoccupano molto di più, che dalle nostre società si scatenano nei confronti della promessa multiculturale. Evidentemente non mi riferisco all’ovvietà che le nostre società sono tutte ormai composite culturalmente, ma all’idea che l’affermazione della loro identità culturale e politica possa essere considerata pienamente desiderabile e legittima solo a condizione che cristallizzi la loro natura composita, rinunciando a perseguire un nuovo equilibrio che tenga conto tanto dei molteplici apporti più o meno recenti quanto delle radici tradizionali e autoctone. Oggi inizierà la solita litania di chi accuserà i media, la polizia, la politica e quant’altri di nutrire un "pregiudizio antimusulmano", perché ieri – per le modalità dell’attentato di Oslo, per quel poco che si sapeva sulla strage in corso sull’isola di Utoya e per le minacce raccolte in tanti mesi e gli attentati sventati in tanti anni – la pista islamica è apparsa dapprincipio la più accreditata. È bene che da questa strage, come da quella di Oklahoma City, rinforziamo la nostra consapevolezza che ogni forma di pregiudizio è dannosa e che persino i semplici stereotipi allontanano dall’accertamento della verità. Ma non fingiamo di ignorare, per paura, convenienza, calcolo politico che la questione della convivenza tra culture diverse nelle nostre società è una sfida che attende, anch’essa, risposte vere e non stereotipi e che più tempo passa senza che la affrontiamo coraggiosamente e apertamente e più aumenta il rischio che la violenza e l’estremismo facciano proseliti ovunque.
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