Un piano per curare le ferite incise nell'anima dalla guerra
giovedì 7 aprile 2022

Caro direttore,

«Non ho dubbi che l’umanità riuscirà a rimettersi anche da questa guerra; tuttavia né io né i miei contemporanei rivedremo mai più un mondo felice ». Penso a questa frase di Sigmund Freud mentre visito, con una mia collega ucraina, Kostyantyn e la sua mamma. Arrivano da Sartana, un quartiere di Mariupol. Sono fuggiti in Italia, tre settimane fa. Sono «traumatizzati», mi dice il funzionario pubblico che mi chiede aiuto. Nei Comuni italiani che accolgono i profughi di guerra ucraini non è ancora molto chiaro a chi chiedere di curare le ferite dell’anima di queste persone accolte, per fortuna, con amore. Il piccolo Kostyantyn ha 5 anni, febbre alta e non smette di piangere. La mamma non parla con le parole. Parla con gli occhi.

Uno sguardo assente. Mi arriva la sensazione che anche il più delicato gesto, da parte mia o di altri, in questo momento, possa essere troppo. Troppo faticoso accogliere qualsiasi intenzione di un altro essere umano. Una quasi certezza che ci sia «tutto da rifare», mi dico. Lei e il figlio sono rimasti 4 giorni sotto le macerie della loro casa. Mi mostra la foto. Nella prima immagine, prima del disastro, la casa è circondata da una staccionata di legno verde con rombi gialli. La foto è scattata in un giorno di pioggia che sembra cancellare i colori. Mattonelle chiare a vista, due piani, un camino sul tetto e una piccola altalena in plastica nel giardino. Mi colpisce la cassetta della posta, grigia e piena di lettere. Lettere forse mai lette, ora sepolte.

Mentre le lacrime cadono sul vetro dello smartphone, la seconda immagine mostra la stessa casa, oggi. Vedo un pavimento di vetri rotti, pezzi di legno e carcasse metalliche di mobili e finestre sventrate. Pareti da cui pendono travi, piastrelle del piano di sopra e tappezzeria divelta. Sullo sfondo si vede un lavandino. Mi dice che è lì che è morto il padre di Kostyantyn, 38 anni. Stava cercando di aiutare il fratello del piccolo, Ilya di 10 anni, morto insieme al padre. Schiacciati dal soffitto delle loro stessa casa. Costruita grazie ad anni di sogni capaci di superare ogni sacrificio.

L’ambulanza li ha portati a Fondazione Irccs Policlinico San Matteo di Pavia. Sono ospiti italiani, ora. Traumatizzati di guerra, che hanno bisogno di tornare a sentire la fiducia negli altri esseri umani, prima ancora di iniziare a elaborare qualsiasi tipo di trauma. Al San Matteo di Pavia, con Fondazione Soleterre, abbiamo attivato un programma di supporto psicologico attivo in Ucraina, in Polonia e in Italia per gestire traumi complessi. In Italia, mentre scrivo, sono più di 85mila le persone in fuga dal conflitto in Ucraina che sono state accolte in Italia. Oltre 30mila sono minori. Sappiamo dagli studi in letteratura su bambini e adolescenti rifugiati che il 22,7% di loro manifesterà, nel breve periodo, disturbi post- traumatici, il 13,8% depressione e il 15,8% disturbi d’ansia. Lo sappiamo perché negli ultimi 30 anni sono stati oltre 400 milioni i bambini esposti direttamente alla guerra.

Gli stessi studi dimostrano che l’elevato carico psicologico sui rifugiati necessita di un’assistenza continua, per la salute mentale, al di là del periodo iniziale di reinsediamento. Mi chiedo come possa il nostro Sistema sanitario, senza stanziare risorse ed elaborare modelli, rispondere a questa ulteriore domanda di assistenza in termini di salute mentale. Freud, parlando della guerra nel 1914, proseguiva: «...se ravvisiamo nella nostra civiltà attuale, che è di tutte la più elevata, soltanto una gigantesca ipocrisia, è evidente che non siamo organicamente idonei per questa civiltà. Non ci resta che abdicare, e il Grande Sconosciuto, persona o cosa che si nasconde dietro al Fato, ripeterà in futuro l’esperimento con un’altra razza».

Occorre fare di tutto per non fare vincere 'Il Fato'. Senza un chiaro piano sulla gestione della salute mentale e il supporto psicologico dei rifugiati, il rischio è, altrimenti, che sarà 'il Fato' a gestire questa complicata situazione. Persone di buona volontà, che potrebbero non essere sufficienti. Servono risorse aggiuntive e chiari modelli di intervento. L’altro grande rischio, altrimenti, è quello di cadere nella casella storica dell’ipocrisia, che ci porterebbe a fingere di possedere una comprensione della complessità del dramma umano dei rifugiati che, in realtà, non si possiede.


Psicoterapeuta dell’infanzia e dell’adolescenza ricercatore Irccs Policlinico San Matteo di Pavia e presidente di Fondazione Soleterre

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