Dopo le primarie del Pd
mercoledì 3 maggio 2017

La reinvestitura a larga maggioranza di Matteo Renzi a segretario del Partito democratico apre indubbiamente una fase nuova della vicenda politica italiana. Il vincitore l’ha accolta con toni forse meno trionfalistici di quelli che la sua indole personale gli avrebbe suggerito. E ha fatto bene, non per ragioni tattiche, ma per sano esercizio di realismo. I voti raccolti dal leader riconfermato – che siano davvero un milione e 280 mila, o qualche decina di migliaia in meno, cambia poco – vanno infatti confrontati, per essere letti utilmente, non con quelli delle primarie 2013, ma con l’esito del referendum costituzionale del 4 dicembre scorso: nei quasi 13 milioni e mezzo di “sì” di quattro mesi fa, seppur insufficienti a far passare la riforma costituzionale fortemente voluta dal suo governo, era compresa infatti un’aliquota di consensi personali all’allora premier di sicuro più ampia di quelli raccolti domenica scorsa, anche considerando i soli elettori del Pd.

Tutto ciò, è ovvio, non toglie valore né al successo odierno né alla nuova e lusinghiera pagina democratica scritta in prima persona dagli italiani che hanno partecipato alla consultazione. Ma non a caso Renzi è stato il primo a escludere che ci troviamo davanti a una «rivincita». E proprio per evitare che il nuovo tesoretto di fiducia raccolto finisca per essere dissipato nei prossimi mesi, non sarebbe male che questo approccio umile alla vittoria venga seguito da una sua gestione del mandato ricevuto improntata alla stessa virtù: umiltà verso le istituzioni (Governo e Parlamento in primis) e soprattutto verso il Paese e le grandi sfide che ci attendono tutti.

Nei confronti dell’esecutivo, ad esempio, il sostegno promesso a Paolo Gentiloni dovrebbe essere dimostrato da un impegno più solerte e continuo, che faccia escludere nei fatti, e non solo nelle dichiarazioni, il sospetto di una perdurante tentazione di chiudere in anticipo la legislatura. Sarebbe altrimenti l’ultimo atto, quello definitivamente suicida, di una sequenza di errori di valutazione e di scelte che, a partire dalle elezioni europee del 2014, hanno intaccato pesantemente l’ormai mitico “picco” del 41%.

Cruciale sarà anche la conduzione del confronto parlamentare, oggi più che mai compito in capo al Pd, per giungere alla nuova legge elettorale.

Si tratterà di un’operazione tanto delicata quanto indispensabile, come ha richiamato giusto una settimana fa il presidente della Repubblica Mattarella, più che per la mancanza di numeri certi al Senato, per dimostrare all’opinione pubblica che si vuole davvero garantire un sistema capace di dare corretta rappresentanza al cittadino-elettore e adeguata capacità di governo a chi uscirà premiato dalle urne. Nelle sue dichiarazioni a caldo il segretario rieletto ha fatto ricorso a un’altra parola-chiave, decisiva specialmente nella fase neo-proporzionalista che si è aperta con il referendum 2016 e a seguito della doppia bocciatura da parte della Corte costituzionale, del Porcellum prima e dell’Italicum poi. Renzi ha parlato più volte di «alleanza », riferendosi non tanto ai partiti attivi nell’agone po-litico, quanto agli italiani.

Ed è effettivamente con il popolo e con le sue esigenze realmente pressanti che va reimpostato ormai il contatto e il dialogo ravvicinato, riattivando e ripulendo dalle scorie i canali della democrazia rappresentativa e non snobbandoli o rottamandoli. Anche solo nei circa nove mesi che ci separano dallo scioglimento delle Camere, il vertice democratico a guida nuovamente renziana dovrà e potrà far capire come intende affrontare capitoli decisivi per il nostro futuro. Dopo la sbornia iper-individualista dei cosiddetti “nuovi diritti” affermati anche a colpi di fiducia, ad esempio, avendo presente la sempre più incombente e quasi irreversibile deriva demografica nazionale, sarà importante capire se verrà data almeno altrettanta attenzione alla sfera dei diritti “comunitari” e socialmente più impellenti.

A cominciare da quelli della famiglia costituzionalmente riconosciuta. Lo stesso può dirsi per il diritto alla salute e alla cura, che nel suo orizzonte genuinamente umanistico è tutt’altra cosa rispetto alle confuse e anche rischiose disposizioni contenute nel testo sul «fine vita» licenziato alla Camera. Basti pensare alle crescenti denunce di carenze o di veri e propri abbandoni terapeutici che arrivano dal territorio e dalle associazioni di assistenza ai malati più gravi e ai disabili. Per non parlare dell’emergenza occupazione, che da ultimo si sta riversando in misura crescente sulle classi di età più mature e quindi più difficili da gestire. Ci sarà infine un doppio banco di prova, di portata semplicemente storica, ad attendere sia un eventuale futuro governo Renzi 2 sia qualunque altro vincitore altrimenti targato: la questione migratoria e il rilancio dell’idea europea. Sembra giusto abbinarle, perché di fatto sono strettamente collegate tra loro.

Se infatti l’Italia non riuscirà a far comprendere ai suoi partner la rilevanza comune del fenomeno delle popolazioni in fuga dalle guerre e dalla miseria, sarà minacciata da una destabilizzazione e un “incattivimento” interni ingestibili in un regime democratico. Allo stesso modo, se gli italiani non capiranno che l’opzione neo-nazionalista e l’uscita dall’Unione conducono in un vicolo cieco, il rischio di declino nazionale diverrà una certezza. Su un punto Renzi ha totalmente ragione: il Paese ha bisogno di un’altra partita. Ma per vincerla servono altre regole (elettorali, ed economiche), altro impegno e altro spirito di squadra. Se fosse invece la stessa già vista, purtroppo sapremmo già come andrebbe a finire. E non possiamo permettercelo.

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