sabato 17 marzo 2012
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Chiunque abbia dimestichezza con le tratta­tive sindacali sa che di accordo si può par­lare solo un secondo dopo la firma e mai neppure un minuto prima. L’entusiasmo con cui ieri mat­tina si salutava l’intesa sulla riforma del lavoro – quasi fosse già cosa fatta – era dunque assai pre­maturo. E infatti sono bastate poche ore perché prima la Cgil, poi la Confindustria, quindi i pic­coli imprenditori ribadissero – ognuno dal pro­prio punto di vista – che «no, così ancora non va» e che «la strada per arrivare alla riforma rimane lunga». Sgombrato il campo dagli slanci prematuri, al­lora, si può tentare di cogliere alcuni segnali per comprendere se, di qui alla scadenza del 23 mar­zo indicata dal governo, sia effettivamente pos­sibile condurre in porto la trattativa. Il primo – e più importante – è che, nonostante qualche pre­giudiziale e perentorio cinguettìo, tutti gli argo­menti in discussione (compresa la famosa “fles­sibilità in uscita”), hanno conquistato diritto di cittadinanza nel dibattito e non risultano più e­sclusi a priori, non scatenano ordalìe al solo no­minarli, come invece accaduto in passato. Lo stesso emergere di una dialettica interna alla C­gil – che pure resta contraria a interventi “pe­santi” – su una “manutenzione” dell’articolo 18 dello Statuto testimonia (finalmente) di un cam­bio di atteggiamento, che potrebbe tradursi in un qualche avanzamento. Si può infatti mante­nere saldo il principio originario della tutela del reintegro contro i licenziamenti discriminatori e insieme eliminare le troppe rigidità che si sono stratificate nella giurisprudenza, nel caso dei provvedimenti per motivi disciplinari o econo­mici. Merito anche della capacità della Cisl di se­dere ai tavoli di trattativa con chiarezza d’idee, di­sponibilità e fantasia riformatrice. Il secondo segnale è la volontà condivisa di dre­nare la palude della precarietà, quella che im­prigiona i giovani nelle sabbie mobili. Operazio­ne non scontata, perché è necessario filtrare le scorie degli abusi, lasciando però l’acqua pulita della flessibilità necessaria. Rispetto alle ipotesi emerse nella proposta governativa, le imprese lamentano – non senza ragioni – un forte appe­santimento in termini di burocrazia e di costi, ta­le forse da far calare le opportunità d’impiego, quantomeno in una prima fase. Anche in questo caso, è positivo però che rispetto ai tanti procla­mi iniziali non ci sia la volontà di brandire l’ac­cetta, abbattendo le forme contrattuali, ma di a­gire con il bisturi della normativa e dei controlli. In maniera più pragmatica che ideologica. Il fat­to poi che tutti i soggetti abbiano riconosciuto al­l’apprendistato la funzione di contratto–princi­pe per l’ingresso dei giovani e che si prospetti u­na ristrutturazione degli ammortizzatori “mor­bida” e “lenta” per oltrepassare questi anni di cri­si, testimonia di una ritrovata consapevolezza. Al netto di qualche dichiarazione critica, l’esito del vertice di giovedì sera con i leader dei partiti di maggioranza dice che il governo ha le spalle coperte e in Parlamento non dovrebbe mancare il sostegno alla riforma. Soprattutto se ci si arri­verà senza strappi con le parti sociali, senza per­correre la via solitaria del decreto, come accadu­to in Spagna e come alcuni hanno più volte au­spicato anche da noi «per superare tutti i veti». Le tensioni scaturite, e gli aggiustamenti resisi necessari dopo la riforma accelerata delle pen­sioni, consigliano di imboccare una strada di­versa. Manca da percorrere l’ultimo miglio, quello più difficile e delicato. Per certi versi, il migliorare della situazione finanziaria, con lo spread in co­stante calo, non aiuta. Perché abbassa la pres­sione sugli attori della trattativa. Ma a ben vede­re, proprio lo stare un passo indietro rispetto al­l’orlo del baratro rende più facile decidere evi­tando i passi falsi. E affermare, così, la svolta di un Paese capace di ri–tarare il “mercato” del la­voro senza scontri ideologici. In maniera condi­visa, badando a ciò che più conta: l’inclusione delle persone e, in particolare, dei giovani.
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