Tutta l'Unione che ora serve
venerdì 27 marzo 2020

La drammatica pandemia del Coronavirus è uno choc temporaneo (speriamo non troppo lungo), simmetrico (le curve non sincrone del contagio nei Paesi europei sono praticamente sovrapponibili) e non dipendente dalla negligenza nella condotta delle politiche economiche. Come ha sottolineato Olivier Blanchard – e, l’altro ieri, Mario Draghi sul “Financial Times” – la risposta a questo tipo di choc deve essere temporanea, mirata e tempestiva.
Dopo gaffe e sbandamenti iniziali, l’Unione Europea ha fatto passi avanti importanti: libertà di usare tutta la flessibilità fiscale che serve e un forte potenziamento degli interventi della Bce che si è impegnata a interventi potenzialmente illimitati di acquisto di titoli pubblici degli Stati membri sul mercato secondario (Quantitative Easing), ha messo a disposizione delle banche linee di credito a tassi negativi, ammorbidito in questa fase le regole di accantonamento di riserve sui prestiti non recuperabili, creato fondi di garanzia per piccole e medie imprese. Ora però l’«Asse del Nord» tra Olanda e Finlandia dal quale la Germania, pur mediando, non riesce a staccarsi, rischia di paralizzare l’azione dell’Unione. E questo è grave.

Le euromisure già varate non bastano, soprattutto per l’Italia. Per rendersene conto, senza confondersi nella pletora di proposte di questi giorni, basta vedere chi eroga cash e chi lo riceve, chi presta e chi si indebita e a quali condizioni. Il Qe ha l’effetto di calmierare lo spread, ma non risolve il problema dell’onere di medio termine dell’aggiustamento (intervenendo troppo lentamente sul costo medio del debito pubblico). Un Paese ad alto debito come l’Italia pagherà in futuro la flessibilità di bilancio e l’extra deficit con una crescita del già elevato rapporto tra debito e Pil e quindi con una spesa da interessi più elevata.
L’approccio più corretto sarebbe quello di evitare che lo choc del coronavirus aumenti i debiti nazionali. Ci sono da questo punto di vista tre possibilità. La prima è un helicopter drop of money (soldi ai cittadini: gli Stati Uniti stanno procedendo in questa direzione dopo Hong Kong), un assegno della Bce sui conti correnti di cittadini e imprese che sostituirebbe in tutto o in parte l’aumento di deficit. La misura non deve necessariamente essere a pioggia e uguale per tutti, ma può tener conto come negli Stati Uniti dei problemi distributivi. La seconda via è un acquisto sul mercato primario del debito in eccesso creato nel periodo della pandemia (trasformato in un titolo perpetuo a tasso zero). Con questa misura, che ricorda il Piano Wyplosz (una delle proposte sostenute da 360 economisti lanciata dalle colonne di questo giornale), la Bce farebbe di più e meglio che calmierare i tassi d’interesse sui titoli pubblici nazionali. La terza possibilità è la creazione di Eurobond per fronteggiare l’emergenza, i cosiddetti Coronabond (nome da evitare). In questo caso l’aumento di risorse necessario per finanziare questo periodo straordinario sarebbe ripartito pro quota tra i Paesi membri. Bene fa il nostro Paese a rifiutare assieme a Francia e Spagna la “condizionalità” in caso di prestito del Mes (ci arriverebbero 36 miliardi). Meglio non avere vincoli di austerità eccessivi e, nel caso, emettere titoli nostri sperando in spread contenuti grazie al Quantitative Easing.

Ma veniamo alla manovra di casa nostra. Con il cosiddetto Decreto Cura Italia il governo ha usato la flessibilità fiscale in modo tempestivo. Parte della spesa si è giustamente focalizzata sul potenziamento della risposta delle strutture sanitarie. Gran parte del resto in misure in grado di colmare il buco di liquidità per cittadini e imprese.Queste includono sospensioni di rate e interessi su mutui o prestiti alle imprese, bonus per lavoratori autonomi e cassa integrazione in deroga per una vasta platea di lavoratori. Un elemento fondamentale da integrare, di cui si era peraltro parlato nei giorni scorsi, è l’intervento verso le imprese che hanno riportato forti cali di fatturato ma vogliono andare avanti senza fallire o licenziare dipendenti. In breve, bisogna aiutare le imprese a non fallire e non solo intervenire solo dopo un fallimento o un ridimensionamento della manodopera. È dunque fondamentale integrare il decreto per i casi di documentati, forti cali di fatturato con un bonus che si traduca in un erogazione cash immediata o in un credito d’imposta immediatamente utilizzabile sulle scadenze fiscali dell’impresa a modello di quello efficace varato in passato sugli investimenti in ricerca e sviluppo. Il consiglio è di utilizzare parte delle risorse per incentivare investimenti “verdi” nelle aree più colpite che sono anche quelle a maggiore inquinamento per polveri sottili. Ottenendo in questo modo tre obiettivi: la ripartenza del Paese con effetti positivi su transizione ecologica e salute e con la riduzione dell’esposizione a futuri rischi. È in periodi straordinari che maturano le grandi scelte.

La crisi del Covid–19 è straordinariamente grave e deve farci fare il passo in avanti decisivo per la condivisione tra Paesi membri di rischi che, anche quando colpiscono in modo diverso singoli Stati, comunque ci trovano tutti vulnerabili e interdipendenti. I 27 si son dati due settimane per farlo, sin troppe. Se il passo non ci sarà per miopi calcoli e scriteriati sgambetti, il problema non sarà di alcuni Stati ma di tutti. E di un’Unione svuotata.


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