giovedì 24 novembre 2011
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Contraddit­torie, spesso mal scritte, a volte condizionate da interessi corporativi o addirittura personali, le tante riforme che hanno inondato la giustizia negli ultimi decenni non hanno mai avuto una visione organica che le sorreggesse. Mancava loro quel respiro profondo che può nascere soltanto dalla riflessione pacata sui problemi reali della giustizia, arricchita del confronto con la cultura accademica. Una discussione onesta e seria su un programma riformatore della giustizia deve avere come fondamento la consapevolezza che tutti i temi che da tempo sono stati agitati contro l’ordine giudiziario toccano questioni reali: dalla verifica della professionalità e laboriosità dei magistrati alle scelte discrezionali di politica giudiziaria inevitabilmente compiute dai procuratori della Repubblica fino al possibile contributo degli avvocati nella valutazione dei magistrati e nelle scelte organizzative degli uffici. Ognuno di questi problemi è stato, in questi anni, spesso strumentalizzato, agitato di fronte all’opinione pubblica, da chi aveva in mente un obiettivo diverso dalla loro risoluzione: un fine punitivo. La reazione difensiva di chi vedeva questi temi branditi e roteati come clave sulla propria testa è stata sovente quella di negare l’esistenza dei problemi. E così abbiamo avuto questioni reali strumentalizzate da una parte e, dall’altra, eluse in quanto strumentalizzate. A tali questioni dobbiamo tornare, senza però coltivare l’illusione che tutti i problemi della giustizia si possano risolvere con riforme che riguardano solo l’organizzazione della magistratura. Tali riforme potranno contribuire ad avere magistrati più preparati e responsabili, ma non potranno certo compiere il miracolo di una giustizia più veloce ed effettiva. L’eccessiva lentezza dei processi, civili e penali, può essere affrontata esclusivamente con una diminuzione delle circoscrizioni dei tribunali e con uno snellimento delle procedure. Partendo da un’organica rivisitazione delle garanzie, che lasci intatte e magari renda più salde le norme che realmente tutelano il diritto del cittadino-imputato di rivendicare la propria innocenza ma, allo stesso tempo, elimini le norme che semplicemente rallentano il corso della giustizia (ad esempio, ma sono solo accenni: prevedere il rischio – oggi inesistente – per l’imputato che faccia appello di vedersi condannato a una pena più grave in secondo grado; abolizione della prescrizione del reato dopo il rinvio a giudizio...). Su questo terreno è urgente non solo un superamento della incomunicabilità tra politica e magistratura, ma anche una nuova stagione di dialogo tra avvocati e magistrati. Perché soltanto una ricomposizione della cultura giuridica, un ritorno alla stessa lingua che sappia spazzare via le reciproche scorie corporative – spesso alimentate dalle inframmettenze di opposti schieramenti politici – possono dare fiato, gambe e passione civile a un pacato intervento del legislatore. Per questo, le prime parole del nuovo ministro della Giustizia – «spero di avere un dialogo con tutti, la fiducia di tutti e il consenso di tutti» – ci sembrano una ventata di aria pura che entra in una stanza piena di fumo. E accendono una speranza: che in questa nuova fase di «impegno nazionale» fortemente voluta dal presidente Napolitano si possa realizzare, o almeno rendere un po’ più vera, l’utopia di Calamandrei, secondo cui la giustizia è quella cosa capace di tradurre il linguaggio della legge nell’umana parlata della gente semplice.
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