«Torino, un Te Deum per ringraziare». Quanto meno accorgiamoci della grazia
mercoledì 7 giugno 2017

Caro Avvenire,
l’altra sera, mentre a Torino una folla strabocchevole seguiva nella piazza centrale la partita delle Juve contro il Real Madrid, qualcosa ha suscitato il panico. Tutti hanno preso a fuggire terrorizzati per la paura di un possibile attentato. Circa 1.500 persone sono state travolte e portate al pronto soccorso. Non si lamenta alcun morto. Se non si tratta di un miracolo, è sicuramente una grazia. In altri tempi si sarebbero fatte processioni, liturgie, e Te Deum di ringraziamento. Adesso tutto si riduce alle solite manfrine, per cercare chi è il responsabile e per imbastire interminabili e stucchevoli servizi giornalistici e televisivi. Bisognerebbe invece tornare a cantare il Te Deum.

Don Marino Tozzi Terra del Sole (Forlì-Cesena)

Si potrebbe pensare che è uno sguardo di altri tempi, quello di don Marino. Lo sguardo di tempi in cui, se da un’alluvione o un naufragio ci si salvava, si andava a portare un ex voto alla Madonna, nel santuario più vicino. Ma è vero che, nella calca della folla impazzita l’altra sera a Torino, è quasi incredibile che nessuno sia morto schiacciato, calpestato sui cocci di bottiglia che ricoprivano piazza San Carlo. Almeno uno però ha rischiato questa morte: Kelvin, il bambino di sette anni poi ricoverato in rianimazione, le cui condizioni vanno migliorando. Ma nel suo caso la grazia di cui parla il lettore è passata attraverso due ragazzi grandi e grossi, che sul quel bambino si sono chinati. Il primo si chiama Mohammad Guyele, 20 anni, dal Senegal. È stato lui a sottrarre Kelvin alla calca, ai piedi della gente che nella fuga lo stava calpestando. Il secondo è un italiano, Federico Rappazzo, 25 anni, soldato e studente di Scienze infermieristiche. In una foto lo si vede che, la maglia della Juventus addosso, chino a terra protegge il piccolo sotto le sue larghe spalle, come in un abbraccio. Poi sono arrivati i soccorsi, e il ragazzino ancora respirava. Ora, dicono i medici, si sta riprendendo. In un evento drammatico come quello di Torino si può vedere solo la funesta esplosione del panico incontrollabile, la folla che, dimentica di tutto, travolge i più deboli, e non si ferma. Si può cercare, ed è giusto, le responsabilità di quanti avrebbero dovuto garantire la sicurezza in quella piazza. Si può palleggiarsi queste responsabilità, come di fatto sta avvenendo. Tuttavia, c’è un altro elemento cui si può guardare: dentro a quel marasma, a tante birre di troppo, alla eccitazione del tifo, ci sono stati anche due ventenni lucidi e calmi abbastanza da vedere cosa stava accadendo a terra, fra le gambe della gente. Il ragazzo nero – uno di quelli cui qualche capopartito urlerebbe in faccia di tornarsene a casa sua – ha usato la sua forza massiccia per strappare il bambino alla folla. L’italiano (nella foto qui sotto) gli si è inginocchiato accanto, ha tastato il polso, ha percepito un debole respiro. Ha urlato, perché arrivassero i soccorsi. Non sappiamo come sarebbe andata, senza l’intervento di quei due. Non sappiamo se Kelvin sarebbe vivo. E il lungo, interminabile abbraccio di suo padre al soldato Federico, sul web, lo testimonia. Non ci saranno, credo, Te Deum per chi si è salvato, l’altra notte a Torino. Non è più il tempo di queste gratitudini corali; forse, addirittura, ce se ne vergognerebbe. Ma, nell’attimo impazzito di buio di piazza San Carlo, accorgiamoci almeno della grazia passata per due ragazzi ben piantati e solidi di nervi, che hanno visto, che si sono fermati mentre tutti fuggivano. Che hanno salvato un bambino – che è come dire salvare un mondo intero.


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