mercoledì 6 maggio 2009
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Se mai fosse stata avvertita la necessità di una prova che evidenziasse da una parte l’interesse della malavita organizzata a sfruttare in maniera criminosa il business ambientale, e dall’altra l’imponenza del giro d’affari che rimpingua le casse delle varie ecomafie, ebbene questa prova l’abbiamo avuta ieri dalla molteplicità delle denunce autorevoli che si sono levate alla presentazione dell’annuale rapporto di Legambiente. Una relazione che la dice lunga sulla voracità anche di quanti nel nome del proprio tornaconto operano per la cementificazione del Paese o per la sua trasformazione in pattumiera. Certo, quando la posta in gioco è pari a 20,5 miliardi di euro (tale sarebbe il fatturato della criminalità ambientale) è naturale che si scatenino appetiti malsani, soprattutto se concreta è la prospettiva di sfuggire a controlli episodici e a sanzioni spesso simboliche, prive di capacità di deterrenza. I 26 mila eco-reati accertati nel 2008 dipingono – temiamo – solo un dettaglio del quadro di illegalità diffusa di un Paese che si confronta con l’ambiente in termini conflittuali, incapace di percepire l’ecosistema come la casa comune. C’è un dato del rapporto sull’ecomafia che suscita interrogativi inquietanti. Non parliamo delle 28mila case abusive, cartina di tornasole del generalizzato disprezzo delle regole. Se in Italia sono spariti (ma dove? e come?) 31 milioni di tonnellate di rifiuti speciali vuol dire che il sistema delle verifiche va riformato. L’urgenza è resa d’attualità dalla prospettiva della ricostruzione dell’Abruzzo terremotato: prima che a fare affari con lo smaltimento delle macerie si buttino a pesce imprenditori di non specchiata onestà, prestanome equivoci e faccendieri chiacchierati sarà il caso di mettere in atto strumenti tecnici e legislativi che riparino da sorprese. Lo stesso vale per le imprese che realizzeranno le nuove case, prima che attorno alle forniture di laterizi, di cemento o di tondino si scateni una guerra dalle conseguenze scontate: impennata dei costi, aumento dei tempi, nessun rispetto della normativa antisismica. Tecnici e politici intervenuti alla presentazione del rapporto sulle ecomafie hanno sottolineato la necessità di una sterzata in fatto di tutela legislativa e penale del bene ambiente. Il codice in vigore è datato, e da più parti si invoca l’introduzione di reati specifici, la previsione di comportamenti sanzionabili che tenga conto dell’evoluzione intercorsa a livello planetario negli ultimi decenni. Settant’anni fa non si poneva certo il problema dello smaltimento in sicurezza di rifiuti radioattivi. Ipotizzare nuove fattispecie delittuose o aumentare le pene edittali però serve a poco quando mancano controlli adeguati. Allora va valutata con attenzione la proposta del procuratore antimafia Pietro Grasso circa l’istituzione di un osservatorio centralizzato sul fenomeno della criminalità ambientale di stampo mafioso. Sapere di più permetterà di combattere e di prevenire meglio. Interessante, nell’ottica della revisione delle norme sulle intercettazioni, il suggerimento di Gaetano Pecorella, presidente della Commissione di inchiesta sul ciclo dei rifiuti, di inserire le violazioni ambientali tra i reati gravi soggetti ad intercettazione. È un segno che a livello politico matura il convincimento trasversale che ogni sfregio all’ambientale non è un’infrazione di serie B, contravvenzione da poco, marachella da punire con un buffetto. È un reato vero, doverosamente valutabile dal giudice nella sua gravità, da perseguire con determinazione. Anche inquinare o deturpare l’ambiente compromette la sicurezza dei cittadini.
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