lunedì 15 luglio 2013
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Che i nazisti avessero l’abitudine di documentare fotograficamente le loro “imprese” è cosa nota. Abbiamo molte foto dei massacri di ebrei effettuati dai tedeschi, soprattutto di quelli avvenuti all’Est, in Russia e in Polonia. Non possediamo solo le fotografie della distruzione del ghetto di Varsavia, ma abbiamo immagini prese addirittura mentre i soldati nazisti, sull’orlo della fossa, fucilavano donne, vecchi e bambini ebrei dei villaggi polacchi e russi. Abbiamo anche foto prese dai soldati stessi per avere un ricordo delle loro imprese, immagini che venivano inviate alle famiglie e conservate con orgoglio. Ho sempre pensato che con queste foto i nazisti abbiano raggiunto l’apice del male. Infatti, come non considerare queste fotografie come il segno stesso del fatto che quei soldati non consideravano i massacri che stavano compiendo un delitto, ma un atto del tutto lecito? Che se i nazisti avessero vinto nessuno di loro si sarebbe mai pentito? Due storici hanno spiegato e contestualizzato la famosa foto del bambino con le braccia alzate, che appartiene all’album della distruzione del ghetto di Varsavia. Perché è vero che le foto da sole non ci dicono molto, o almeno non ci dicono tutto. Così, Dan Porat ha dato un nome ai suoi protagonisti, tutti uomini comuni, come già ci ha spiegato in un libro degli anni Novanta lo storico Christopher Browning: impiegati del catasto, come il comandante Stroop che diresse la repressione della rivolta del ghetto, piccoli borghesi, contadini. Jürgen Stroop fu a capo successivamente delle Ss naziste in Grecia contro ebrei e partigiani. Condannato a morte dai polacchi, fu impiccato nel 1952 nel luogo dove c’era stato il ghetto di Varsavia. E quel nazista con il mitra in mano puntato sul bambino non è la comparsa di un film, ma aveva un nome, Josef Blösche, aveva fatto il contadino, era entrato nelle Ss, era stato prigioniero in Unione Sovietica, era tornato in Germania, si era sposato e aveva avuto dei figli. È stato processato in Germania nel 1969 per crimini di guerra e messo a morte. Vite reali. Un altro storico, Frédéric Rousseau, ci ha invece spiegato la genesi dell’album e la fortuna della foto del bambino con le mani alzate, che non fu neppure mostrata al processo di Norimberga, dove pure alcune delle foto di quell’album furono presentate come prove, e che poi negli anni Novanta divenne il simbolo più famoso della Shoah, fu posta come copertina in molti libri, conosciuta ovunque. In Italia, Ernesto Galli della Loggia propose che fosse appesa in tutte le classi di ogni scuola italiana, ma non se ne fece nulla. Anche delle vittime si è ricostruita la storia. Non di tutte, lo sappiamo, di molti si sono perduti anche i nomi. Di tutti quelli andati direttamente al gas ad Auschwitz, non uno è stato registrato, immatricolato. Da una parte abbiamo così la perdita definitiva non solo del volto ma anche del nome, dall’altra la trasformazione di un nome, come quello di Anna Frank, o di un’immagine, come questa del bambino di Varsavia, in simbolo della Shoah. Ha ragione Giovanni Ruggiero, quando dice che proprio il fatto di essere diventato un simbolo rende più difficile la sua identificazione con un bambino reale. Del resto, lo ha detto anche il sopravvissuto con cui il bambino del ghetto è stato non senza incertezze identificato: «I bambini ebrei a cui fu ordinato di alzare le mani furono un milione e mezzo».
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