giovedì 4 settembre 2014
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Erbil, Duhok, Soulayamiya: città d’Oriente... Terre d’Algeria, di Libia, di Somalia e Sudan. E poi di Pakistan e d’Indonesia, di Corea e di Cina. E, ancora, di Turchia, di Siria e di Vietnam. C’è tutta una geografia che narra dell’efferata persecuzione contro il popolo di Gesù di Nazareth. Popolo che, dalle sue origini all’oggi, testimonia come il rosso del martirio rimanga il colore simbolo dell’appartenenza alla storia più ambiziosa e paradossale mai udita: quella cristiana, per l’appunto. Nel cui grembo batte forte il cuore di una promessa antica e sempre nuova: «Chi vuol salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà» (Lc 9,24).  Perdersi per ritrovarsi, morire per vivere, piangere per poi un giorno rallegrarsi. Paradossi che odorano di sale: quello che dà sapore alla storia.  Anche alla storia dell’africano Jerry, detenuto dietro le sbarre di una prigione italiana. Dalla Nigeria all’Italia, per sottrarsi alla furia omicida della guerra e della disperazione. Tanti compagni se li è inghiottiti il mare: loro, e con loro le mille piccole reliquie che ricordano ai migranti per forza l’indirizzo di casa e dell’amore. La famiglia di Jerry appartiene al mondo di Boko Haram, l’organizzazione terroristica jihadista radicata e diffusa nella Nigeria nord-orientale. Sfuggito al ruggito del mare e degli scafisti, arrivato a un passo dal possibile approdo alla normalità, lui è scivolato in carcere: tanti anni a disposizione dell’ozio o della virtù. Il carcere è un incrocio di sangui, di lingue, di disperazione. Un luogo di domande infinite: quelle che, sommate tra loro, sono le fondamenta per braccare la Verità.  Dietro le sbarre Jerry inizia l’altra fuga: non dalla miseria della povertà ma dall’orrore di una storia fondata sulla paura e la violenza. Avverte l’eco millenario di un annuncio che risuona solenne nelle periferie dell’assurdo, nei luoghi del non-senso: «Beati voi quando vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi a causa mia» (Mt 5,11).  Parole come rintocchi, rassicuranti eppure spiazzanti, messaggio alto e umanissimo di una religione in cui la gioia vive in stretto connubio con la libertà: non ci può essere la prima senza la seconda.  Una sorpresa tutta da vivere, una storia da rileggere a ritroso, un incontro da condividere. Con la famiglia prima di tutto: «Papà – gli dice nella lingua natia in una delle rare telefonate che gli sono possibili – ho deciso: sto diventando cristiano». È solo all’inizio del suo cammino di catecumeno, ma non gli riesce di tenersi quella notizia tutta per sé: troppo grande, troppa gioia, troppa passione in questa che è pur sempre una storia d’amore, la propria storia con Dio. La risposta sono urla scomposte, una rabbia inimmaginabile, terrore nello sguardo: «Il tempo di tornare e t’ammazzo. Morirai per le mie stesse mani», lo minaccia il padre, con la madre e i fratelli. Jerry non è un ergastolano: ancora qualche anno e uscirà. Ha un decreto di espulsione immediata dall’Italia, è giovane e ha tutta la vita davanti. Il futuro, innanzitutto: quello che ognuno si costruisce con le proprie mani. Non trema Jerry mentre racconta di questa telefonata nel chiuso della sua cella: «Tra Cristo e la mia famiglia scelgo Cristo». Come tanti.  La sua è una professione di fede pronunciata in periferia, nella terra di confine tra il bene e il male, la banalità e il significato, la vita e la morte. In quella periferia che, per papa Francesco, è il teatro di una carità da rendere, ma prima di tutto di una verità da illuminare. Perché ci sono storie, le storie dei poveri, che prima di mendicare la nostra elemosina ci accreditano la possibilità di capire meglio chi siamo, da dove veniamo e verso dove stiamo andando. Storie che cantano la vita dentro gli abissi dello spavento. Storie imbarazzanti per noi che siamo cresciuti al sole d’Occidente. Storie sorprendenti.
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