Sprecare vite e sacrifici?
martedì 12 novembre 2019

Tre dei nostri soldati gravemente feriti in un attacco in Iraq, vicino Kirkuk, un prete e suo padre trucidati nella Siria del nord-est. Alla vigilia del sedicesimo anniversario della strage di Nasiriyah, viviamo un altro giorno di sangue e di dolore per i militari colpiti e per i religiosi assassinati. Potranno anche non essere collegati direttamente al recente attacco militare della Turchia contro le forze curde in Siria, che aveva portato alla fuga di centinaia di militanti di Daesh dati in custodia a queste ultime, ma questi atti rendono evidente come il cancro jihadista, quale sia il nome che esso si dia, è tutt’altro che estirpato. Anzi, troppe dinamiche internazionali spingono nella direzione opposta e devono indurci a una riflessione onesta sull’impegno delle nostre forze militari nelle missioni di pace e di stabilizzazione all’estero.

L’Italia è infatti in prima linea, dalla fine della "guerra fredda", nella maggior parte delle grandi missioni internazionali di post-conflict, ossia per la stabilizzazione e la pacificazione di Paesi usciti da guerre civili o di altro tipo. Dalla Somalia e dalla Bosnia di metà anni Novanta, al Kosovo, all’Afghanistan, al confine fra Libano e Israele, all’Iraq – solo per citarne le principali – il nostro Paese ha sempre partecipato a questi tentativi di stabilizzazione. In Iraq, in particolare, siamo presenti fin dal 2003, a seguito della sciagurata guerra anglo-americana per rimuovere Saddam Hussein, con una pluralità di iniziative civili e militari che vanno ben oltre, come si dice imprecisamente ora, la semplice idea di combattere Daesh.

In quella nazione abbiamo fatto – e facciamo – molto di più dalla protezione di infrastrutture strategiche, alle attività 'formative' di mentoring e training, oltre a una grande quantità di programmi dedicati per la popolazione civile. Qusto sforzo dell’Italia è costato molto in termini di vite umane, di energie e di soldi. Ma è un impegno che è stato mantenuto, al di là delle motivazioni più nobili che pur ci sono e non vanno scordate, anche per assicurare la visibilità del Paese a livello internazionale e in sede di Alleanza Atlantica. Per uno stato in crisi semi-permanente, fragile politicamente ed economicamente, la partecipazione ai grandi tentativi di post-conflict internazionale ha offerto rassicurazioni e ritorni evidenti.

Ora tutto ciò sembra essere messo in discussione da scelte politiche sempre più erratiche e imprevedibili: l’America di Trump è una nazione che appare volersi disimpegnare dagli scenari più complicati, che siano l’Afghanistan o la Siria, a costo di pugnalare alle spalle i propri alleati o di offrire insperate praterie ai nemici che abbiamo cercato di in questi anni di combattere, che si chiamino Taleban o Daesh. La Nato vive una crisi gravissima che spesso viene sottostimata, con uno dei suoi pilastri principali, la Turchia di Erdogan, che agisce quasi fosse un avversario e non un suo membro. L’Unione Europea che ha fallito nel darsi una voce comune a livello di politica estera e di difesa nel proprio spazio di prossimità, appare divisa al proprio interno e scossa dalla propaganda sovranista, allo stesso tempo rozza ma efficace nell’illudere che il continente possa trasformarsi in una fortezza isolata.

Queste dinamiche indeboliscono oggettivamente l’ideale stesso delle missioni internazionali di pace e l’idea che uno Stato si debba impegnare non solo per proteggere i propri cittadini, ma anche quelli minacciati in Paesi differenti. Ora che 'cattiveria' ed 'egoismo' sono diventati persino un vanto, la solidarietà e l’impegno internazionale possono sembrare fuori moda. Tutto ciò imporrebbe una riflessione strategica sulla nostra politica estera e sul nostro ruolo fuori dai confini europei in un mondo in trasformazione. Ma di questo dibattito non vi è traccia, schiacciati come siamo sui tatticismi della politica interna e sui contorcimenti di partiti e movimenti che sembrano incapaci di guardare oltre la più vicina scadenza elettorale locale.

È un errore che rischiamo di pagare pesantemente come Paese, e più di noi le donne e gli uomini che esponiamo ai rischi della violenza e dei conflitti. Per motivi che continuano a essere eticamente validi, ma che sembrano ora vacillare nel tramonto delle nostre sicurezze su chi siano gli amici e chi no.

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