venerdì 5 luglio 2013
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È una buona notizia per la Chiesa universale la chiusura dell’inchiesta diocesana sulla fama di santità del cardinale vietnamita Francois-Xavier Van Thuân, che avviene oggi a Roma. Per diversi motivi. In primo luogo perché a promuoverla è il Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, che il presule vietnamita ebbe a guidare per alcuni anni. Con ciò si rende evidente che non erano retoriche le parole pronunciate da Papa Francesco, quando – nel ragionare anche su vizi e problemi al vertice organizzativo della Chiesa – ebbe a premettere che in Curia «c’è gente santa». Nei resoconti di molti media, l’indomani, questo passaggio finì oscurato: ora invece, con questo passo del cardinale Van Thuân verso gli altari, si conferma che la Curia romana è ben diversa dalla rappresentazione ingenerosa che ne viene spesso fatta. Di più: l’esempio del cardinale vietnamita dice che, se di riforma la Curia come la Chiesa intera ha bisogno, è innanzitutto della "riforma del cuore", nel segno della santità, prima che delle strutture in quanto tali.
La seconda ragione per cui accogliere con gioia la notizia per cui un giorno potremo forse salutare il cardinale Van Thuân come un santo è che siamo in presenza di un martire dei nostri tempi. Ancora una volta – come già per tanti altri protagonisti del Novecento che Papa Wojtyla volle additare ad esempio per il popolo cattolico – si ripete l’antica verità del detto di Tertulliano: «Il sangue dei martiri genera cristiani». Van Thuan non è stato ucciso. Tuttavia ha pagato un alto prezzo per la sua testimonianza di fede: imprigionato nel 1975 dal regime comunista, pochi mesi dopo essere stato nominato arcivescovo, è restato in carcere per 13 anni, di cui ben 9 in isolamento. Ebbene, proprio in un contesto apparentemente impermeabile all’annuncio cristiano come il carcere, il coraggioso vescovo ha portato una testimonianza capace di far breccia nei cuori. Come ha raccontato la sorella del presule, Elizabeth, intervistata da Credere, «abbiamo avuto modo di ascoltare dalla viva voce delle stesse guardie che l’atmosfera di odio e di sospetto che regnava in carcere piano piano è diventata di amicizia e perfino amore. La cella di François era diventata una sorta di "scuola di lingue straniere" perché lui insegnava alle guardie un modo di vivere che loro non conoscevano. (…) Quando gli chiedevano: "Ma perché ci vuoi bene?", egli rispondeva: "Se non vi volessi bene, non sarei degno di essere chiamato un discepolo di Cristo"».
Qui siamo al terzo motivo di gioia. Il cardinale Van Thuân è, e va considerato, un maestro prima che un testimone. Anzi, un maestro in quanto testimone. Lo conferma un eloquente aneddoto. Quando Giovanni Paolo II lo chiamò a predicare gli esercizi alla Curia romana, nel 2000, il vescovo vietnamita reagì con grande stupore alla proposta del Papa: «Santità, ma io sono stato in prigione, non sono aggiornato dal punto di vista teologico. Che cosa potrei dire?». E il Papa di rimando: «Ci porti la sua esperienza». Commenta il postulatore della causa di Van Thuân: «Quando un pontefice invita un vescovo a portare la sua esperienza, lo invita a fare diventare quella esperienza magistero della Chiesa in un certo qual modo».
Oggi, dunque, proprio nel giorno in cui viene presentata l’enciclica Lumen Fidei, salutiamo con gioia un maestro-testimone che ha saputo trarre dalla sua granitica fede in Cristo le ragioni della speranza: non è un caso, infatti, che diversi libri di Van Thuân portino nel titolo la parola "speranza". Un richiamo potente, per noi che non abbiamo certo da testimoniare la fede in carcere, ma che, nondimeno, siamo chiamati a far brillare la luce del Vangelo laddove il Signore ci ha posto.
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