martedì 23 aprile 2013
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L’elezione a larga maggio-ranza di Giorgio Napolitano come successore di sé stesso ha concluso felicemente una fase politica che aveva messo in luce fenomeni disgregativi, soprattutto nella coalizione di centrosinistra e nel Partito democratico. L’immenso premio di maggioranza ottenuto da questo partito – come ha ricordato in un accenno del suo discorso di accettazione lo stesso Napolitano – ha messo in luce l’incapacità del gruppo dirigente di governarla, trasformandosi in un paradossale boomerang. All’origine dall’attuale crisi del partito di maggioranza relativa, dal punto di vista delle concrete scelte politiche, c’è soprattutto la scelta di rieditare l’alleanza con la principale delle formazioni di estrema sinistra, quella guidata da Nichi Vendola. Un’opzione legata a considerazioni di utilitarismo elettorale, com’è ovvio che sia, ma anche a una concezione di fondo del proprio ruolo, sulla quale il Partito democratico non ha mai saputo, o voluto, cercare una sintesi effettiva tra le sue anime più rilevanti (quella post-comunista e neosocialista, quella liberaldemocratica di sinistra, quella ex popolare). Non si tratta di un problema da poco: in un partito pluralista il rispetto reciproco tra le diverse aree politico-culturali è la condizione essenziale della convivenza. Il gruppo dirigente che si è costituito attorno a Pierluigi Bersani ha mostrato un certo fastidio per queste tematiche, considerandole un lascito del passato, delle appartenenze di origine, da superare senza residui, mentre le differenze attuali avrebbero dovuto essere regolate col sistema democratico delle consultazioni dell’elettorato potenziale, le cosiddette primarie. La selezione della candidatura a palazzo Chigi, che ha interessato un’ampia platea di elettori, ha avuto un effetto importante, anche se temporaneo, di popolarità del partito, mentre quella delle candidature parlamentari, a base assai ristretta, ha portato in Parlamento un rinnovamento anagrafico che ha però fatto pagare un prezzo pesante per l’inesperienza e non solo, come si è visto nei disastri cui sono state esposte la candidatura autorevole di Franco Marini e persino quella del "padre nobile" del centrosinistra Romano Prodi. Tornando alla questione dell’alleanza elettorale, il calcolo che era apparso vincente, quello di evitare di doversi confrontare con un avversario "a sinistra", si è dimostrato, a urne aperte, del tutto sbagliato. Da lì in poi si sono inanellati errori su errori, segno di uno sbandamento del gruppo dirigente, il principale dei quali è stato il confronto aspro con Giorgio Napolitano, culminato nel rifiuto da parte di Bersani di rinunciare al mandato, pur non avendo compiuto le condizioni di verifica preventiva di una maggioranza cui era legato. La confusa aspirazione a costituire un governo di minoranza ha fatto da sfondo alla partita del Quirinale, che alla fine ha portato alla dissoluzione della coalizione con Sinistra e libertà, formazione che subisce l’attrazione del Movimento 5 Stelle, e che alla fine ha persino rifiutato di votare per Giorgio Napolitano (che invece aveva ottenuto il consenso di Rifondazione comunista sette anni fa). La rottura a sinistra non corrisponde naturalmente ai confini dei partiti che la costituiscono: il ministro Fabrizio Barca che aveva presentato un’ipotesi di fusione tra Pd e Sel, ora viene presentato come propugnatore di una secessione dal Pd. Naturalmente queste e altre ipotesi, allo stato attuale, hanno solo il valore di sintomi, ma la malattia che ha colpito il partito è indubbiamente grave. E la deliberata, assurda e alla resa dei conti vana esclusione di Matteo Renzi dal novero dei "grandi elettori" del nuovo capo dello Stato lo aveva reso evidente. La prima prova, formidabile, sarà ora quella della partecipazione a un governo che dovrà basarsi sulla vasta maggioranza che ha concorso all’elezione di Napolitano. Il Pd rischia di avviarsi sulla strada seguita dal Psi che quando decise di partecipare a un governo di centrosinistra, cinquant’anni fa, subì una scissione a sinistra che lo ridusse a forza minore. Gruppi dirigenti ancora in preda a risentimenti retrospettivi rischiano di non riuscire a governare un processo di rinnovamento nel segno della responsabilità, come quello richiesto a tutti – e in particolare al Pd – da Napolitano. Ma non è detto che un sussulto di spirito di sopravvivenza non riesca a rianimare quel partito e a dare un senso costruttivo e non reciprocamente distruttivo alla sua caratteristica di pluralità. Sarebbe un esito utile anche per l’Italia.
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