mercoledì 5 ottobre 2011
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Per la gran parte studenti, con molti soldati di guardia, accalcati nel cortile del ministero dell’Educazione in attesa dei risultati di un concorso per l’assegnazione di una serie di borse di studio in Turchia. Ecco le vittime dell’attentato kamikaze, rivendicato dalla milizia islamica degli shabaab, che ha provocato almeno un centinaio di morti nel quartiere K4 (Kilometre Four) di Mogadiscio, la parte ancora controllato dal governo di transizione appoggiato dalle Nazioni Unite. Anche in questo caso, come spesso capita con le stragi del terrorismo, è l’identità delle vittime a spiegare l’intento dei carnefici. È vero, nella stessa zona sono situati gli uffici di almeno metà dei dicasteri dello stesso esecutivo, un bersaglio importante. Ma colpendo i giovani, gli al-Shabaab hanno ripercorso le orme dei taleban in Afghanistan e dei guerriglieri di al-Qaeda in Iraq. Lo scopo è lo stesso: impedire non solo la rinascita del Paese, ma stroncare alla radice ogni germoglio di speranza in un futuro diverso e migliore. Che cosa si poteva immaginare di più terribile ed efficace, in questo senso, di una strage di ragazzi impazienti di mettersi alla prova con lo studio e con la realtà di un altro Paese? E che cosa si può ancora dire di una milizia che si definisce "dei giovani" (il nome completo è Harakat al-Shabaab al-Mujaheddin, Movimento dei giovani militanti) e si dedica al massacro dei giovani? Dal 2006, cioè da quando si sono affermati sulla scena somala dopo la sconfitta inflitta alle Corti islamiche dalle truppe dell’Etiopia, gli shabaab sono perfettamente riusciti nell’impresa di precipitare il loro già stremato Paese in un incubo di distruzione e di morte. Due milioni di somali (un quinto della popolazione) sono stati scacciati dalle loro case e per metà costretti a rifugiarsi all’estero. L’accesso all’acqua corrente è oggi limitato al 29% degli abitanti, mentre dieci anni fa lo stesso dato era al 35%. Dal 2006 a oggi, la martoriata economia della Somalia è stata colpita da due consecutive stagioni secche che si sono trasformate in una micidiale carestia anche, e forse soprattutto, per colpa degli shabaab. Che per anni hanno imposto alla popolazione la piaga di una guerriglia permanente e poi, nelle zone da loro dominate, hanno vietato i soccorsi delle Ong e delle istituzioni internazionali, per altro prima a lungo taglieggiate. Un cupo desiderio di dare la morte, drappeggiato nella bandiera di un islam che esiste appunto solo nei deliri dei taleban e dei tagliagole di al-Qaeda, che risulta ancor più incomprensibile se solo si pensa che, tra tutte le costrizioni di una regione tra le più disgraziate al mondo, un’altra Somalia è possibile. Lo dimostra il caso del Somaliland, la regione del Nord (dal 1884 al 1960 Somalia britannica) diventata autonoma al crollo della Repubblica del dittatore Siad Barre. Nel Somaliland l’anno scorso si è svolta una transizione pacifica dei poteri a seguito di regolari elezioni, è in vigore un sistema fiscale, e nelle scorse settimane sono state organizzate carovane di aiuti poi indirizzate verso le regioni del Sud più colpite dalla carestia. Regioni che sono sotto il controllo degli shabaab. Mentre nel mondo, dal Medio Oriente all’Asia, cresce in modo evidente la richiesta di democrazia e la coscienza della sua efficacia nel garantire il giusto equilibrio tra i diritti e i doveri delle persone, la Somalia resta un buco nero che non si sa come colmare. In molti ci hanno provato, nessuno ci è riuscito. Ma non si può pensare di lasciare il Corno d’Africa abbandonato a se stesso e al destino di "fabbrica della miseria" per un continente che già oggi raccoglie il 60% dei poveri del mondo.

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