giovedì 15 marzo 2012
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Ottomila morti: a tanto assomma, secondo stime delle agenzie dell’Onu, ufficiali e inverificabili, il numero delle vittime della repressione del regime di Bashar al-Assad. Quattro volte tanto quello che determinò l’intervento militare in Libia, ma probabilmente il numero delle vittime di quella che è ormai una vera guerra civile è molto più alto. Difficile ricordarselo, ma un anno fa, quando tutto ebbe inizio, la folla che protestava a Homs e in altre città siriane non voleva la caduta del regime, ma ne chiedeva semplicemente una riforma in senso blandamente liberale. Dopo tanto sangue e un’incredibile escalation di violenze, dalle quali inizia a insinuarsi il dubbio che neppure alcune formazioni della resistenza siano completamente esenti, la situazione è ben oltre un punto di non ritorno, anche se per il momento nessuno riesce a prevedere quale possa essere il possibile sbocco. Mentre l’Italia chiudeva di fatto la propria rappresentanza diplomatica a Damasco, ieri è stato diffuso un nuovo rapporto, di Amnesty International, che aggiunge orrore all’orrore nel dettagliare i metodi di tortura – ma sarebbe più corretto parlare di supplizio, in molti casi – cui sono sottoposti i sospetti oppositori di Assad. È una nuova macabra puntata delle rivelazioni che riguardano quel che accade in Siria, nessuna completamente e puntualmente verificabile da fonti indipendenti, che segue di poche ore la diffusione del filmato sul massacro (ennesimo) di Homs. Il Dipartimento di Stato americano ha nuovamente tuonato contro «il regime assassino» e a stretto giro di posta il ministro degli Esteri russo Lavrov ha ribadito che Mosca si opporrà a qualunque tentativo di internazionalizzazione della crisi, ha apertamente accusato le monarchie del Golfo di essere dietro la rivolta e ha paventato il rischio di un’escalation regionale, con il coinvolgimento di Iran e Iraq, se qualcuno dovesse pensare di agire a prescindere da un’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, peraltro esclusa proprio per il veto russo (e cinese). Lavrov ha anche sottolineato, evocando un’involuzione di tipo iracheno, come le molte minoranze di cui è composto il puzzle siriano non siano per nulla tranquille di fronte a una possibile egemonia sunnita che dovesse essere sancita dal successo della rivoluzione. Il problema, purtroppo, è che Lavrov ha ragione. La posizione russa difatti, che pure addossa all’immobilismo di Assad una pesante responsabilità per il degenerare della situazione, appare meglio argomentata di quella americana e occidentale, nonostante la Russia sia motivata – da quando Putin è al potere – da una Weltanschauung anacronistica, ottocentesca, e da una visione del proprio interesse nazionale decisamente angusta. Ciò che stupisce, nelle dichiarazioni della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato, è la deriva 'monocorde' che esse assumono ogniqualvolta le crisi giungono oltre una certa soglia. A quel punto è come se l’America – poco importa se reaganiana, clintoniana, neocon o liberal – non sapesse più reggere lo stress di un’interpretazione più articolata e meglio argomentata, in grado così di guadagnare consensi, e si facesse impaziente, mentre la mano carezza nervosamente il solito calcio della pistola. Una pistola che però sa bene di non potere – in fondo "non volere" – estrarre. Così, un anno e migliaia di morti dopo, non possiamo fare molto di più che cercare di mantenere l’attenzione e uno sguardo critico su questa guerra civile, consapevoli che proprio il suo degenerare sta portando alla crescente centralità dei gruppi più radicali tra le forze dell’opposizione con l’effetto di impaurire le minoranze religiose ed etniche della Siria e di fare da collante ai segmenti di società (forse ancora maggioritari, forse non più) che continuano a preferire il tetro Assad a un salto nel buio.
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