domenica 22 luglio 2012
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Sono sempre più drammatiche le notizie che giungono dalla Siria, dove in tre soli giorni si sono contate oltre 500 vittime, 17.000 dall’inizio della rivolta; mentre le forze di sicurezza stanno cercando di riprendere il controllo totale della capitale, i combattimenti sono divampati per la prima volta anche ad Aleppo, seconda città del Paese e suo polmone economico. I fatti di queste ultime ore rendono difficile qualunque previsione sui tempi della caduta del regime di Assad, che ieri ha visto la defezione di altri due generali. La sensazione è che quella che voleva forse essere la spallata finale da parte del 'Libero esercito siriano' è stata tentata prematuramente, anche se appare evidente che l’esercito di Assad è ormai una coperta troppo corta al punto che la concentrazione di truppe verso la capitale ha sguarnito i confini del Paese. A cominciare da quello del Golan, dove Israele fa buona guardia affinché non vi siano infiltrazioni di armi o ribelli, per arrivare poi a quelli ben più porosi con la Turchia (un vero santuario per i partigiani anti-Assad) e dell’Iraq (il cui governo ha fin qui sostenuto il regime, pur ospitando ancora basi e truppe americane) che i ribelli asseriscono di controllare. Proprio le autorità irachene hanno invitato ieri i propri cittadini a lasciare la Siria «perché il Paese non offre più i requisiti minimi di sicurezza». Come se invece Baghdad li avesse mai posseduti dal 2003 ad oggi. Proprio mentre le sue forze tentavano di riconquistare i quartieri ribelli di Damasco, Assad ha smentito le indiscrezioni lasciate filtrare dall’ambasciatore russo a Parigi di «essere pronto a farsi da parte e abbandonare il Paese per facilitare la transizione». L’ipotesi di una trattativa tra regime e opposizione appare ancora molto remota, anche per la piega sempre più feroce che hanno preso gli scontri. L’impressione però è che seppure Assad dovesse respingere i ribelli fuori da Damasco, il solo fatto di una loro presenza nella capitale così massiccia, attiva ed efficace per tanti giorni è un chiaro segnale che il regime ha perso la patita e che la capitolazione sia solo questione di tempo. È la stessa sensazione che si respirava a Saigon nella primavera del 1968, dopo "l’offensiva del Tet" (il capodanno buddhista), scatenata dai Vietcong contro la capitale, le principali città sudvietnamita e la base americana di Khe Sanh. Dal punto di vista militare l’offensiva fu un fallimento, ma la capacità dei guerriglieri comunisti di portare la guerra fin nel cuore della capitale (dove la stessa ambasciata americana venne assediata) ebbe un impatto propagandistico e psicologico estremamente forte. Di fronte a un simile scenario, l’impotenza delle Nazioni Unite risulta ancora più grave. Nelle scorse ore, una nuova Risoluzione ha prorogato di 30 giorni la missione degli osservatori, che di fatto sono immobilizzati proprio per la violenza assunta dagli scontri. Ancora una volta Cina e Russia hanno frapposto il veto all’adozione di una risoluzione più 'muscolare', che prevedesse l’inasprimento delle sanzioni e che facesse esplicito richiamo al Capitolo 7 del Trattato istitutivo dell’Onu, relativo alla «responsabilità di proteggere», normalmente inteso come l’anticamera di un intervento militare, che peraltro nessuno ha intenzione di realizzare. Russi e cinesi si sono attirati le critiche dei Paesi occidentali e della Lega araba, ma soprattutto i primi è molto difficile che possano piegarsi: piaccia o meno, il loro rientro sulla scena mediorientale, dopo oltre 20 anni, è legato al ruolo che stanno giocando in Siria. Al di là delle dichiarazioni pubbliche, i leader occidentali sanno bene che, pretendendo che i russi acconsentano all’adozione di misure volte a facilitare la caduta del regime, propongono a Mosca di rinunciare alle proprie posizioni in cambio di nulla. Occorrerebbe invece partire dall’apparente gaffe dell’ambasciatore russo a Parigi, che ha rivelato come anche Mosca giudichi ormai un ostacolo ingombrante la permanenza di Assad al potere e probabilmente ritenga che il regime abbia le settimane contate. In tale prospettiva, sarebbe più opportuno intavolare con la Russia trattative che partano dal riconoscimento dell’evoluzione in corso e la coinvolgano nel dopo-Assad. Concretamente, ciò significherebbe offrire al Cremlino la possibilità di continuare a giocare un ruolo in Siria anche dopo il cambiamento di regime, cosa altrimenti impossibile stante l’attuale comportamento russo di comprensibile ma non condivisibile (e neppure lungimirante). Per fare questo, evidentemente, è necessario impegnare i ribelli alla disponibilità per una transizione negoziata. Non si tratta di immaginarsi un impossibile condominio con gli assadiani, ma di ottenere la disponibilità per una resa del regime che non suoni come un sanguinario redde rationem. Un’occasione per sperimentare un simile terreno di intesa potrebbe essere offerta dall’elaborazione di una bozza di risoluzione che preveda l’approntamento di campi profughi dentro i confini siriani da realizzare in concomitanza con la resa del regime. Campi che potrebbero probabilmente accogliere una popolazione composta maggiormente di alawiti e cristiani che non di sunniti. Si tratta di una strada impervia, ma forse la sola possibile per smuovere l’impasse attuale del Consiglio di Sicurezza.
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