domenica 3 luglio 2011
COMMENTA E CONDIVIDI
Un’altra vita spezzata su cui piangere e altri parenti ai quali stringersi. Ancora un soldato, il caporal maggiore scelto Gaetano Tuccillo, che entra nella tragica lista dei militari italiani uccisi in Afghanistan. E l’ennesimo vile attacco contro i nostri convogli lungo le indifendibili vie di comunicazione, con la tecnica ormai collaudata degli ordigni ai lati delle strade. Siamo quasi a quaranta vittime ormai, con un aumento delle perdite negli ultimi anni che non fa ben sperare per il futuro. Una tendenza che testimonia le difficoltà di una guerra ormai decennale contro i taleban, tali da scoraggiare i governi impegnati nella coalizione internazionale guidata dalla Nato e da spingere le opinioni pubbliche occidentali a chiedere il ritiro da una terra che, nei secoli passati, ha spinto alla fuga ogni esercito straniero, dai Moghul agli inglesi fino ai sovietici. Mai decidere sull’onda della commozione emotiva, si dice. E vedere solo gli aspetti negativi di questo impegno sarebbe, in effetti, fare un torto prima di tutto ai tanti caduti per la ricostruzione e la pacificazione dell’Afghanistan. Quando invece sono ben evidenti i frutti del nostro impegno: dalle Ong afghane che con coraggio si battono per l’evoluzione liberale della loro società ai tanti interventi di ricostruzione. A Herat, ove opera il nostro contingente, lo testimoniano i nuovi ospedali, le carceri femminili considerate un modello di recupero sociale, le scuole aperte e gli incentivi per farle frequentare dalle bambine. Certo, sono risultati parziali che sembrano sviliti dai molti fattori negativi: la corruzione, lo strapotere dei capi tribali e degli odiosi "signori della guerra" che infestano il Paese da decenni. E poi il ritorno di spinte islamiche dogmatiche ed estremamente radicali, che vogliono eliminare quanto è stato fatto per il miglioramento delle condizioni delle minoranze e della componente femminile della società. Sopra ogni altra considerazione vi è tuttavia la situazione di sicurezza. Dovevamo, noi occidentali, eliminare la minaccia dei taleban e non ci siamo riusciti. Abbiamo aumentato le truppe e sono aumentati ancor più i guerriglieri delle milizie islamiche. Più passa il tempo e più risulta chiaro che la via di un accordo con parte degli insorti è l’unica soluzione possibile. Ucciso infine Osama Benladen dopo una caccia decennale, gli Stati Uniti sono del resto i primi a voler cominciare il ritiro delle truppe. E tutti gli altri Paesi della coalizione si preparano a fare altrettanto. Una decisione politicamente inevitabile, ma militarmente pericolosa: le forze nazionali afghane non sono pronte e chissà quando lo saranno, mentre i continui scontri e attentati – fra cui il clamoroso recente attacco all’Hotel Intercontinental nel centro di Kabul – dimostrano la fragilità dei dispositivi di polizia. Sta qui lo snodo cruciale: riuscire, nel poco tempo che la Nato ha ancora a disposizione, a rafforzare il governo centrale di Kabul e le sue truppe nazionali, riducendo nel contempo la pressione dei taleban. E permettendo a chi sta trattando con gli insorti di farlo senza che sembri troppo debole e con le "spalle al muro". È questa la condizione minima per immaginare un ritiro che non sembri una sconfitta o una fuga. E soprattutto per rendere possibile la successiva fase di aiuto finanziario e civile per il rilancio del Paese; perché tutto l’Occidente si è impegnato, una volta rientrati i propri contingenti (entro il 2014), a rafforzare la cooperazione e l’aiuto finanziario al governo di Kabul. Ma dovesse degradarsi ancor più lo scenario militare, queste promesse rischiano di rivelarsi parole vuote. E tutti gli sforzi fatti, i lutti dolorosi, i soldi racimolati fra le pieghe dei bilanci, le pagine belle e quelle dolorose di questi dieci anni di Afghanistan risulterebbero un’opera incompiuta, sterile e abbandonata alla polvere del tempo.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: