venerdì 2 settembre 2011
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La circolare ministeriale del 2010, fino a pochi giorni fa passata inosservata, con cui in Francia si prescriveva di evitare nei libri di testo il termine "Shoah", termine straniero, e di sostituirlo con il più generale "annientamento", e l’intervista rilasciata dal premio Nobel Günter Grass a Tom Segev sul quotidiano israeliano Haaretz in cui si accostavano alla Shoah le sofferenze patite dal popolo tedesco nella guerra, hanno avuto un effetto forse sproporzionato alla loro intenzione e alla loro reale portata: quello di darci la sensazione che un’epoca si stia chiudendo, che la percezione dell’opinione pubblica nei confronti della immane tragedia che è stata definita come lo spartiacque della storia del Novecento stia mutando, il suo interesse diminuendo e calando. In ambedue i casi si individua una relativizzazione della Shoah, una sua banalizzazione che, attraverso la messa in discussione del carattere di unicità attribuito ormai da molto tempo alla Shoah, preparerebbe la dissoluzione della sua memoria.Ma che cosa vuol dire "relativizzare" la Shoah? Se vuol dire comparare Auschwitz alla politica di Israele verso Gaza o al bombardamento di Dresda, l’operazione è inaccettabile, perché si comparano, o ancor peggio si mettono insieme arbitrariamente senza nemmeno compararle, entità qualitativamente oltre che quantitativamente diverse. Se invece si compara la Shoah, il genocidio degli ebrei d’Europa, ad altri genocidi riconosciuti in quanto tali, da quello armeno a quello del Rwanda, l’operazione è legittima, purché si riconosca che comparare vuol dire individuare e analizzare somiglianze e differenze, distinguere e non omologare. Differenze che, nel caso della Shoah, sono evidenti e riconosciute, a patto, di nuovo, di non fare dell’unicità un dogma e di non fondare su di essa l’intera costruzione della memoria e la sua preservazione.In realtà sono temi su cui ci si interroga già da molti anni, in particolare all’interno del mondo ebraico, che ha spesso guardato con ansia e preoccupazione all’ipertrofia della memoria, alla sua trasformazione in «religione della Shoah». Ora, sembra che molti dei dubbi sollevati in quelle circostanze comincino a trovare conferma e che l’ipertrofia della memoria si trasformi, in maniera opposta e simmetrica, in una sua negazione, in un fastidio verso la Shoah oltre che verso le sue celebrazioni memoriali. È possibile che sia così, che questi due segnali indichino una svolta, vogliano segnalare una tendenza a chiudere l’era della memoria della Shoah. In questo caso sta a noi – insegnanti, intellettuali, giornalisti, storici, ebrei come non ebrei – trovare modi nuovi di elaborare questa memoria, di sfrondarla degli eccessi e delle retoriche, di spiegare a cosa vogliamo che serva il ricordo di questo evento, perché vogliamo ricordare e a che scopo.Se la reazione alle parole di Grass o alla stupida imposizione burocratica francese consisterà solo nel riaffermare che gli ebrei sono stati più vittime degli altri – il che è senz’altro vero, e allora? – entreremo nell’ottica meramente difensiva di quella che uno storico francese ha chiamato «la concorrenza delle vittime». E invece che aiutare la memoria, daremo una valida mano a seppellirla.
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