venerdì 5 febbraio 2010
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Ormai ci siamo ingoiati anche l’amo e il filo, e ancora tiriamo. È l’illusione dell’autosufficienza, patetico sogno della notte più stupida della mezza età: quando sei ancora fissato sul mito di un’adolescenza interminabile, e non ti accorgi che è già il momento di cambiare le prime protesi.Questo incantamento sulla realizzazione dell’io – vero e proprio monoteismo perverso del Sé – è il tema tragico della nostra condizione epocale, se vogliamo dirla tutta e senza troppi giri di parole. La logica del sospetto e della competizione, dell’afferrare e del fare da sé, non si limita a ferire la compassione (ed è già terribile). Uccidono la circolazione sociale della giustizia, ed erodono progressivamente anche il valore del suo esercizio legale. Senza circolazione della virtù della giustizia, che è disposizione a metterci "del mio" per il bene di tutti, c’è poco da fare, si corrompe anche la sua amministrazione pubblica a vantaggio di ciascuno.L’interpretazione puramente burocratica e formale del principio che rende a ciascuno "il suo" lascia scoperto troppo, o copre troppo poco, di ciò che noi stessi – noi umani – percepiamo come realmente e profondamente giusto. Giusto per la vita e per le sue relazioni, per le creature e per l’abitare, per la dignità del riconoscimento e la felicità della cooperazione, per ciò che è degno di essere osato e cercato, creduto e sperato, amato e anche sofferto. L’ossessione e la voracità "del mio" si allargano: e finiscono per selezionare – quasi non ce ne accorgiamo più – l’unica interpretazione accettabile del "diritto". Un batter di ciglia, ed eccoci simili all’orda primitiva, in giacca e cravatta (o anche casual griffato, bando ai formalismi).L’abbiamo sbeffeggiata un po’, negli anni ruggenti, la circolazione della virtù della giustizia, dico, a vantaggio delle nostre capacità di gestire tecnicamente la sua distribuzione democratica. C’è poco da ridere, adesso, vero? Infatti. È l’autorealizzazione, bellezza. In verità, i «germi di una misteriosa connivenza con il male», ovvero i parassiti più indistruttibili del pianeta-uomo, ci vanno a nozze con il principio dell’autorealizzazione, quando esso si assegna come obiettivo supremo la realizzazione del Sé. È storia dell’egoismo di sempre, certo, finché ci sarà storia. La novità, però, è questa. L’interpretazione autarchica, egoistica, chiusa e autosufficiente del concetto – in sé affatto degno – dell’autorealizzazione ha guadagnato diritto di cittadinanza: e va incrementando, come dire, il suo corso legale. L’esca del godimento individuale e irresponsabile che ci realizza (enjoy!) non è più obiettivo supremo, riservato ai pochi che hanno potenza e prepotenza adatte allo scopo. È offerta di massa: comandamento supremo e passaggio di iniziazione per cuccioli secolarizzati. Guai a ribellarsi, vieni subito "nominato". La destrezza della sua assimilazione è guardata con indulgenza da molti padri e madri, che sono diventati smaliziati uomini e donne di mondo, come si dice. Patetici sognatori di mezza età, certo. Che accendono però intermittenze deliranti sempre più frequenti nelle giovani generazioni. Benedetto XVI ha inviato ieri un messaggio per la Quaresima molto profondo e incoraggiante, ma anche affilato e splendente come un diamante, su tutto questo. Leggetevelo parola per parola, anche se non andate in chiesa: non è una predica. Non fa questione di occasionali mortificazioni e di estemporanei gesti di compassione. La circolazione sociale del proprio, e la reciprocità della sua condivisione, è il nome dimenticato della giustizia. La sua radice profonda, la sua evidenza più convincente, la sua grazia migliore. Interrogare Dio su questo ci apre una rivelazione precisa al millimetro sull’odierna condizione occidentale. Esercitarci coraggiosamente, sul punto, ci evita la fine del pesce.
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