Le guerre e noi, sentinelle nella notte
sabato 21 ottobre 2023

Nel mezzo dell’uragano si apre sempre una zona di quiete apparente. Le nubi vorticano tutto attorno, ma lasciano al centro un’isola di relativa calma, in bilico minaccioso tra speranza di schiarita e precipizio verso il peggio.
È in questo caos calmo che resta sospesa la nuova, violenta tempesta mediorientale, e con lei noi che la seguiamo da lontano e da vicino: distanti (relativamente) per geografia, ma prossimi per la voce familiare di una regione di mondo che come nessun’altra ci chiama ricordandoci quanto di noi le dobbiamo. E ora che la guerra continua a tuonarci nelle orecchie, minacciando il peggio ma lasciando aperto uno spiraglio, come per provare ancora a fermarsi, restiamo in uno stato di ansia sospesa, come trattenendo il fiato: temiamo la catastrofe, e insieme speriamo di uscirne. Entrambe le soluzioni sembrano possibili: da cosa dipende quale prevarrà? Intanto c’è questa tensione sanguinante per lo stillicidio di razzi e incursioni, bombardamenti “mirati” e ritorsioni che colpiscono alle spalle.

E dentro l’incertezza sul destino della crisi, vite che si spengono e sofferenze indicibili. Una veglia in armi, con il fuoco acceso e il vento che potrebbe estenderlo senza controllo. Perché la guerra vuole progredire tanto quanto noi vogliamo fermarla, pretende di aver già passato il punto di non ritorno e di convincerci che ormai il suo precipitare è irreversibile proprio mentre tra noi c’è chi ha la pretesa inaudita di sbarrarle il passo a mani giunte, nude al quadrato. E se non basta una volta – nessuno si illudeva che bastasse, come se la preghiera fosse un incantesimo – siamo già pronti a pregare e a digiunare una volta ancora insieme, e poi ancora, fin quando sarà necessario: venerdì prossimo tutto il mondo, come propone il Papa. Non ci fermiamo, neppure ora che tutto pare possibile – la catastrofe o il miracolo – in questo tempo di attesa. Cosa ci spinge dunque a restare allerta, sentinelle di una pace che cerchiamo nel cuore buio della notte? C’è un fatto evidente al nostro cuore, se lo ascoltiamo fino in fondo, se siamo ancora noi stessi: apparteniamo tutti alla Terra Santa, e le sue ferite diventano misteriosamente le nostre più che per altre drammatiche crisi che pure ci hanno fatti sentire partecipi. Da due settimane siamo in pena per luoghi e popoli che ci sono cari, ostaggio entrambi di una furia primordiale che pretende impossibili soluzioni di sangue e di odio a rivendicazioni antiche. Ci è chiaro più che mai in questi giorni che laggiù – e altrove – nessuna causa è giusta se viene perseguita con la violenza, né una via d’uscita sicura si può guadagnare a tanta sofferenza seminandone altra per sete di vendetta. Le armi hanno un vocabolario rudimentale, non conoscono parole diverse da quelle poche che sentiamo urlare ogni giorno. Tutte le altre possiamo farle risuonare noi, e saranno parole che non si sono ancora sentite se la preghiera – anche quella che prende le sembianze della laicissima speranza umana – non si lascia scoraggiare né silenziare dalla brutalità analfabeta della guerra.

Abbiamo molto da dire proprio perché quella che oggi patisce e geme è anche, e profondamente, casa nostra, senza che questo debba suonare sgarbato per chi la abita. È casa da sempre di chi vuole e costruisce nella sua vita la pace perché è di lì il suo Signore, che sul destino della Città Santa ha pianto: a noi basta asciugare una sola lacrima al giorno di quel dolore divino che oggi si rinnova e abbraccia madri disperate, famiglie in fuga, padri schiantati dal sapere figli ostaggio del male, figli terrorizzati a ogni nuovo tonfo sordo, a ogni sirena di allarme. Noi possiamo nulla, per loro, ma anche tutto quel che può chi sente sua tanta angoscia: la stessa di Dio nella notte tra gli ulivi di fronte alle mura di Gerusalemme, sudando il sangue di generazioni di dolore. Ecco perché mentre attendiamo il volgere della storia che torna a passare con le sue contraddizioni sotto quelle mura millenarie non siamo scoraggiati, smarriti o indifferenti: ci è stato consegnato un intero dizionario di pace, possiamo farlo nostro e pronunciarlo tutto, in faccia a missili e cannoni. In Terra Santa come in Ucraina. Ogni mattina, da quell’alba di quindici giorni fa segnata dall’orrenda mattanza di Hamas su civili inermi colpevoli solo di essere ebrei (e già questo raggela), temiamo di apprendere dai notiziari che la tempesta ha rotto gli argini e spezzato anche questa estrema attesa. Sappiamo che il sangue reclama altro sangue, la storia lo insegna e promette di ripetercelo come se non l’avessimo ancora compreso. Ma noi che ci sentiamo cittadini di quella terra per parte di Padre sappiamo di dovere implorare per lei tutto il bene che desidera: la pace, che è anche la nostra.

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