Rider da risarcire, in un mercato che comunque non può reggere
domenica 22 ottobre 2023

I rider non sono lavoratori autonomi. È un’ovvietà che chiunque avrebbe potuto affermare fin dai primi giorni in cui li abbiamo visti girare in bicicletta per le nostre città. Esiste qualcosa che potrebbe farci pensare che l’attività di queste persone (quasi tutte straniere, quasi sempre poverissime) non sia “subordinata” alle esigenze dei loro committenti? Solo qualcuno ricco di senso dell’umorismo direbbe “mi metto in proprio” prima di indossare giaccone e zaino termico con il marchio di un’azienda per poi farsi dettare da un’app dove ritirare e consegnare pasti il più rapidamente possibile. A vederli pedalare sotto la pioggia fitta in una serata fredda o litigare al citofono con un cliente che non ha voglia di scendere e ritirare il suo sushi perché è già in pigiama fanno pensare più alla condizione degli antichi schiavi che a quella delle moderne partite Iva. Infatti, non sono lavoratori autonomi, ma subordinati con collaborazioni coordinate e continuative, come hanno stabilito i tribunali del lavoro. Ci sono voluti anni per accettarlo, perché i tempi della giustizia sappiamo quali sono. Poi le aziende faranno ricorso e quindi potremmo dover aspettare ancora un po’ per avere una cornice legale inappellabile.

Chissà se i rider ci saranno ancora quando tutte le regole saranno chiare. Nei giorni scorsi il tribunale di Milano ha dato ragione all’Inps e all’Inail, che hanno chiesto a Uber Eats e Deliveroo di versare i contributi previdenziali e i premi assicurativi per tutti gli anni in cui i fattorini risultavano autonomi e invece non lo erano. La richiesta partiva da 90 milioni di euro, il conto finale sarà più basso, ma anche qui servirà tempo per capire quanto: occorre calcolare i contributi per tutte le volte che i rider si sono connessi all’app che gli dà ordini. Nel frattempo Uber Eats ha già deciso, lo scorso giugno, di lasciare l’Italia, perché anche risparmiando su contributi e assicurazioni contro gli infortuni i conti non tornavano. I conti non tornano quasi per nessuno in questo settore, e non solo in Italia. Deliveroo ha accumulato un rosso di oltre 1,5 miliardi di sterline in dieci anni di attività. Uber Eats ha contribuito per circa un miliardo al rosso di 9,1 miliardi di dollari del bilancio 2022 della capogruppo Uber. Delivery Hero, il “campione” europeo delle consegne di pasti (controlla Glovo), ha faticosamente raggiunto il suo primo pareggio di bilancio solo quest’anno, ed è attiva dal 2011. Solo Just Eat, che ha un modello di business diverso, sembra avere raggiunto una certa stabilità economica. Altre aziende come Gorillas o Getir sono sparite dall’Italia senza lasciare ricordi indelebili.

Il food delivery fatica a stare in piedi per un motivo semplice: vendere pasti al prezzo del menu di un ristorante aggiungendo pochi euro per consegnare il cibo in poco tempo a qualche chilometro di distanza può essere redditizio soltanto se il ristoratore accetta di rinunciare a buona parte dei suoi margini (caso raro) o se chi si occupa della consegna è disposto ad accontentarsi di un pagamento irrisorio (e questo succede spesso). Anche nei Paesi dove non esiste un salario minimo la legge, fortunatamente, mette limiti a quanto poco si possa pagare un lavoratore. E una paga equa, comprensiva di contributi e assicurazioni, può fare saltare il fragile equilibrio economico del settore, disposto a farsi carico di una piccolissima parte dei costi sociali della sua attività.

Se fosse chiamato a operare in piena legalità e sottoposto a controlli rigorosi, in realtà, tutto il mondo delle consegne incontrerebbe serie difficoltà a operare. Pochi “zaini termici” dei rider supererebbero un controllo igienico-sanitario sulla congruità al trasporto di alimenti. Più in generale, se i furgoni dei corrieri rispettassero il Codice della strada ogni volta che parcheggiano per fare le consegne, il successo della spesa online forse svanirebbe. Non è un caso che Amazon abbia intenzione di portare anche in Italia già l’anno prossimo il trasporto pacchi con i droni: volano, non parcheggiano in doppia fila, lo stipendio non sanno che cosa sia, figuriamoci i contributi. Poi starà ai clienti decidere se aspettare l’arrivo di un aeroplanino telecomandato carico di merce sia davvero preferibile rispetto al fare due passi e andare in un negozio o al ristorante.




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