giovedì 4 marzo 2010
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Caro direttore,nei polizieschi anni Settanta era ricorrente l’espressione: «una breve in cronaca»; non so se nelle redazioni si usi ancora. La realtà però non è cambiata. E anche Avvenire raccoglie in poche righe gli episodi che giocoforza non raggiungono il clamore tale da far loro guadagnare il centro della pagina. Ma io spesso trovo in questi episodi «minori», perché non sono accompagnati dai prefisso «maxi» o «mega» oggi tanto popolari, ricchezza di significati impliciti e non di rado anche di allarme. Anche oggi sul nostro giornale ho trovato un esempio che mi ha colpito e sul quale vorrei trasmetterle qualche riflessione. Mi riferisco all’episodio, riferito a pagina 12 del 3 marzo, di un tredicenne che nella periferia di Napoli si è presentato a scuola con una pistola (per fortuna una scacciacani, ma lui pensava fosse vera) minacciando i compagni di classe. A corollario, l’interrogatorio ha accertato genitori totalmente assenti, un fratello con precedenti e il diretto interessato che reagiva «con spavalderia». Ora forse lui sarà allontanato dalla famiglia, ma il problema non si riduce a un caso individuale; è un intero contesto a essere sempre più in questione, e non mi pare che l’evoluzione sia incoraggiante. Può rassicurarmi?

Cosimo Santi

No, mi spiace: sarei presuntuoso se mi atteggiassi a chi ha ricette sicure per rimediare alla cancrena che aggredisce tanta parte della periferia napoletana. Il diverso atteggiamento nei confronti delle armi rispetto agli Stati Uniti e la legislazione molto più restrittiva hanno finora evitato che, da noi, si producessero stragi come quella di Columbine, con studenti pistoleros che sparano su chiunque capiti loro a tiro. Ma sarebbe illusorio, caro lettore, pensare di essere completamente al riparo da rischi, specie in territori in cui le armi non denunciate non mancano di certo. Come rileva lei, però, questo episodio ci aiuta a capire che la soluzione non può consistere semplicemente nell’impedire di nuocere a un ragazzino cresciuto male (un’espressione che condensa chissà quali vicende dolorose, relazioni umane fallimentari, disagi solitari...). E non possiamo aspettarci miracoli neppure dal controllo del territorio, sempre più capillare e ficcante, da parte delle forze di polizia. Questo, certo, è indispensabile, perché solo grazie a esso si può tutelare chi si oppone ai delinquenti, ma senza la "bonifica" del terreno, le male piante continueranno a riprodursi e a moltiplicarsi. Una bonifica che dev’essere opera convergente delle istituzioni e delle forze sane della società partenopea (ma potremmo dire altrettanto di quella di altre plaghe, soprattutto meridionali, del nostro Paese...). Ci sono segni di un’azione di questo tipo, e in essa la Chiesa svolge un ruolo cruciale, come testimoniano le tante pagine con le quali abbiamo dato conto delle parole e delle iniziative del cardinale Sepe e degli altri vescovi campani in favore della legalità. È un bell’esempio di collaborazione per il bene del Paese, nello spirito costruttivo del Concordato. Ma questo ancora non basta: c’è necessità di un tessuto economico sano senza il quale nessuna legalità è durevole, di una scuola con docenti motivati e mezzi idonei, di politiche sociali, specie quelle a sostegno della famiglia, che non si limitino all’assistenza e, ancor meno, degenerino nel clientelismo. Serve, sempre più, un Sud che mostri di volere davvero il proprio riscatto e una classe politica che sappia essere di guida. Sono auspici, caro Santi, non sicurezze. Ma non possono essere solo velleità.
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