Se è un «cancro» pensare la pace e non seminare armi nelle società
mercoledì 29 marzo 2017

Signor direttore,
l’ideologia è peggio del cancro e lei è ammalato grave. Mi riferisco alla sua risposta al signor Teresio Asola che, da ex obiettore al servizio militare, arriva ad auspicare il servizio miliare in chiave educativa anti-teppistica. Lei, che invece il militare l’ha fatto e sostiene di aver scelto così perché cittadino di Paese che ripudia la guerra come strumento “politico”, risponde di preferire oggi un «servizio civile obbligatorio (magari per due estati)». Io dico che se guardiamo al servizio militare, esso è un vero bene. Prenda esempio dalla Svizzera. Servizio effettivo, sempre. Addestramento all’uso delle armi di cui più del 60% dei cittadini resta in possesso. Sicurezza alle stelle, perché aggredire uno addestrato non è così facile. L’uso delle armi genera anche il rispetto per esse, e la Svizzera è quinta al mondo nella sicurezza generale. Eccetera, eccetera, eccetera... Sveglia, direttore!

Mauro Mazzoldi

Trovo la sua metafora sul cancro (ideologico) da cui sarei affetto non esattamente elegante e forse anche al limite della decenza polemica. Ma il problema sarà certamente mio, non suo signor Mazzoldi. Ma stiamo alla sostanza della sua dura diagnosi. Dunque: io sarei “malato” perché ho fatto con serena convinzione il servizio militare, ma non sono militarista e mi considero un uomo di pace felice di essere nato e vissuto in quest’Italia che ha una Costituzione anti-bellicista, e perché penso che un Paese civile dovrebbe far fare ai suoi cittadini più giovani l’esperienza della piena e diretta corrispondenza tra diritti e doveri di cittadinanza. Le rivelerò un piccolo segreto: non penso affatto di essere l’unico italiano a nutrire queste convinzioni e ad avere questi valori di riferimento nella sua vita. Penso, anzi, che siano tantissimi a pensarla così e che anche questo ci faccia un popolo migliore di quello che spesso riteniamo. Sono pure convinto che prima di mettersi a scrivere, bisognerebbe imparare a leggere. E ho la sensazione che lei abbia letto malissimo o con lenti deformanti il dialogo tra il lettore (e scrittore) Teresio Asola e me. Eppure lei ha buoni occhi. Mi permetto di suggerirle di non usarli solo per guardare e invidiare una nazione come la «pacifica» Svizzera dove sei civili su dieci possono detenere armi (per la gran parte, però, in quanto parte della “milizia”, mi pare oggi fino ai 30 anni di età). L’uso delle armi – come di ogni altro strumento in grado di spezzare la vita – genera terribilmente e prima di tutto morte, poi può anche incutere rispetto. Per questo io credo fermamente che l’uso delle armi da guerra debba essere riservato – e con regole stringenti – ai tutori dell’ordine, cioè ai garanti della legalità, ovvero a coloro che sono incaricati di vegliare sui diritti e sui doveri di tutti i cittadini e sulla pace che non è mai soltanto assenza di guerra. Ma vorrei anche segnalarle che negli Stati Uniti d’America, dove i 325 milioni di abitanti dispongono di circa 270 milioni di armi, secondo l’ultimo rapporto dell’American Journal of Medicine il rischio di morire per omicidio, suicidio o incidente è venticinque volte più alto che negli altri Paesi ad alto reddito dell’area Ocse, mentre il tasso reale di omicidi è sette volte superiore. Potrei sciorinare parecchi altri numeri, ma non voglio annoiarla: lei è curioso e non ideologico, no? Quindi non farà fatica a informarsi a dovere su che cosa significa infestare una società umana di armi da guerra. Le consiglio solo di rimettere bene, lei, la sveglia. Non vorrei sembrarle presuntuoso, ma qualcosa mi dice che ne ha un po’ più bisogno di me... È davvero pericoloso arrivare a mitizzare la familiarità diffusa con le armi da guerra come via a una civile e pacifica convivenza.

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