venerdì 14 novembre 2008
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Era nell’aria e da mille segnali lo si intuiva: dai negozi semivuoti, dal calo dell’occupazione, dalla crisi di fiducia nel sistema bancario, dal tracollo delle richieste di mutui e dal contemporaneo impennarsi delle insolvenze nelle rate. Ma ora che è la locomotiva tedesca a confermarcelo dobbiamo purtroppo constatare ciò che da tempo sapevamo e si temeva: l’Europa è entrata ufficialmente in una fase di recessione. A Berlino masticano amaro: per due trimestri consecutivi la prima economia europea ha dato responso negativo, ma complessivamente sono tutti e trenta i Paesi industrializzati monitorati dall’Ocse ad andare in rosso. Si va dal modesto 0,1% giapponese al più problematico 0,9% americano, con una media che in Eurolandia si stabilizza sullo 0,5%.È l’effetto dello tsunami finanziario cominciato negli Stati Uniti nell’estate del 2007 con la crisi dei mutui subprime e deflagrato successivamente con il fallimento di Lehman Brothers e la crisi strutturale delle banche d’affari. Si disse un paio di mesi fa che il riverbero si sarebbe sentito ben presto sull’economia reale. E di fatto sta accadendo. Perché questo non è più soltanto un problema di banche e di liquidità (a questo – e non solo a questo – dovrebbero provvedere i 21 riuniti da oggi a Washington per fronteggiare la peggior crisi del dopoguerra), ma di recessione vera, quella che colpisce indistintamente ciascuno di noi a tutti i livelli.Il meccanismo è terribilmente semplice, una specie di principio del domino: a seguito delle turbolenze finanziarie e delle perdite subite da milioni di cittadini, la domanda interna (cioè i consumi) si indebolisce e ristagna, come nota anche la Bce nel suo bollettino mensile diffuso ieri; al diminuire dei consumi diminuisce conseguentemente il fatturato delle imprese; a minor fatturato corrisponde quasi di norma (considerata la poca propensione al rischio dell’impresa italiana, soprattutto quella media e grande) una diminuzione degli investimenti: capita sovente, in casi come questi, che l’imprenditore piuttosto che investire preferisca acquistare titoli di Stato, poco remunerativi ma molto più sicuri; bassi investimenti significano scarse probabilità che si creino posti di lavoro, anzi, è più verosimile che se ne perdano. Questa è la recessione, cui di solito si accompagna – e sta effettivamente accadendo in Europa – una diminuzione dei prezzi: secondo la Bce nel 2009 l’inflazione scenderà al 2% e l’Istat conferma che nel mese di ottobre in Italia è ferma al 3,5%, nonostante aumenti a due cifre per benzina, gasolio, energia elettrica e gas da riscaldamento.Come uscirne? Fenomeni macroeconomici di questa portata sono sostanzialmente ingovernabili, anche se proprio per una governance della finanza mondiale si è riunito il G21. Ma la finanza, come sappiamo, non è l’economia reale. Per rianimare quest’ultima occorrerà certamente più tempo. Non è un caso che la legge finanziaria (parte di una manovra triennale) approvata ieri alla Camera sia basata «sul presupposto di una crisi in arrivo e in intensificazione». Difficile sarà il ripristino della fiducia: già nel 2007 – rivela ancora l’Istat – il 57% delle famiglie italiane vedeva nero. Oggi dalle premonizioni si è passati ai fatti. Ovvero alla necessità di stringere la cinghia di qualche buco, lavorando – ognuno per la sua parte – perché la stagione delle vacche magre abbia fine. Se il Paese non si chiuderà in se stesso, uscirà prima dalla crisi.
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