mercoledì 16 febbraio 2022
Il «dilemma dell’ultimo letto» può essere risolto solo con il patto di fiducia fra medico e paziente. E la libertà di scelta non può negare le basi su cui poggia tutta l’attività di cura
l Comitato nazionale di bioetica ha escluso il criterio comportamentale per l’accesso alle terapie. Ma al tempo stesso ha detto che non è accettabile ragionare per categorie di malati Gli antivaccinisti negano le informazioni ricevute, non credono che il vaccino sia efficace, e sono addirittura certi sia pericoloso

l Comitato nazionale di bioetica ha escluso il criterio comportamentale per l’accesso alle terapie. Ma al tempo stesso ha detto che non è accettabile ragionare per categorie di malati Gli antivaccinisti negano le informazioni ricevute, non credono che il vaccino sia efficace, e sono addirittura certi sia pericoloso

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L’accesso ai luoghi di lavoro a chi ha più di 50 anni solo se è in possesso del Green Pass rafforzato – fermo restando le esenzioni previste – ha riacceso il dibattito più ampio sui diritti di chi ha scelto di non vaccinarsi. È una questione bioetica che va a complicare dinamiche già emerse nel corso della pandemia e che vale la pena approfondire, per comprendere la posta in gioco evitando inutili tifoserie. Per farlo, è utile ripartire dal primo dei drammatici dilemmi che si è posto due anni fa, allo scoppio del contagio, quando gli ospedali sono stati travolti dai malati e non c’erano personale e mezzi per tutti; un dilemma posto anche nelle settimane scorse, con l’impennata dei contagi Omicron e il Servizio sanitario nazionale (Ssn) di nuovo in affanno: chi curare quando i malati sono tanti e le risorse poche?

Il Comitato nazionale per la Bioetica (Cnb), fra gli altri, si è pronunciato due anni fa, con il parere «Covid-19: la decisione clinica in condizioni di carenza di risorse e il criterio del 'triage in emergenza pandemica'»; ha proposto una priorità nell’accesso alle risorse basata esclusivamente su criteri clinici, in analogia a quanto avviene per le liste di attesa dei trapianti di organo, con valutazioni caso per caso nel contesto della comunità dei malati. Con l’ultima ondata del contagio la questione si è però posta in maniera inedita: a riempire gli ospedali e le terapie intensive sono in larga maggioranza i no-vax, cioè chi per scelta non si vaccina ed è quindi più vulnerabile al contagio e alla malattia, specie nella forma grave. Il dilemma è doppio: innanzitutto c’è tra loro chi rifiuta le cure che lo salverebbe, arrivando a togliersi il casco con l’ossigeno per respirare. Ma soprattutto gli ospedali si riempiono e si ripete quanto visto due anni fa, quando sono stati rimandati interventi e ricoveri di altri malati – la gente continua ad ammalarsi di altro, durante la pandemia – e tutte le risorse umane e strumentali sono state destinate al Covid.

Ecco quindi il problema dell’accesso alle cure nel nuovo scenario determinato dai numerosissimi pazienti novax: è giusto rimandare i trattamenti necessari a chi è malato di altro da Covid e si vuole curare, dando la precedenza a chi ha rifiutato la vaccinazione anti-Covid, e si è maggiormente esposto al contagio del coronavirus e alla malattia grave? Il dilemma è concreto e drammatico. Se le risorse e le energie della sanità pubblica sono completamente assorbite dalla cura dei no-vax, è evidente che fra i malati di altro, che cercano terapie ma ne vengono esclusi, si accentueranno le diseguaglianze sociali: saranno tutti gravemente penalizzati dalle circostanze, con i più benestanti che troveranno il modo di accedere a trattamenti sanitari rivolgendosi al privato, mentre chi ha meno disponibilità economiche dovrà aspettare che passi l’ondata dei contagi, perdendo tempo prezioso per la propria salute e per la vita. È una evidente e pesante ingiustizia, considerando anche che tutti pagano le tasse per il Ssn, e che bisogna difendere la preziosa vocazione universalistica della nostra sanità.

D’altra parte, se si ammette che chi ha rifiutato il vaccino viene curato per ultimo, o viene escluso dalle cure perché ha consapevolmente rifiutato lo strumento di prevenzione per eccellenza, dovremmo seguire lo stesso criterio anche in altri casi: curare per ultimo (o escludere) i fumatori se si ammalano di cancro ai polmoni, per esempio. Si arriverebbe così a stabilire la priorità di cura (o la cura stessa) non in base alla situazione clinica delle persone malate, ma al loro comportamento, con qualcuno che stabilisce a priori qual è quello corretto e quale quello sbagliato. Cioè si cura per primo chi 'se lo merita': si darebbe la stura a una pericolosissima china da Stato etico. Perché curare chi si rifiuta di fare attività fisica e ha problemi legati all’obesità? Perché curare l’Aids in chi ha comportamenti a rischio, o la cirrosi epatica ad alcolisti?

Il Comitato nazionale di bioetica nel suo parere ha esplicitamente escluso questo criterio comportamentale per stabilire l’accesso alle terapie. Ma al tempo stesso ha anche detto che non è accettabile ragionare per 'categorie' di malati, esclusi a priori dalle cure: se ne conclude che così come non è eticamente corretto non curare gli anziani, individuando a priori limiti di età oltre i quali non si accede alle terapie, non è eticamente corretto stabilire che, a priori, altri gruppi di malati, quelli non-Covid, siano esclusi dalle cure mediche. Questo è però quel che è successo con il dilagare di Omicron: gli ospedali si sono riorganizzati dando la precedenza ai malati Covid, per gran parte no-vax, rispetto agli altri. Senza i no vax la situazione sarebbe molto più sostenibile. E allora? Autorevoli bioeticisti affermano che una possibile risposta può essere quella basata sul 'consenso informato', pilastro nel rapporto medico-paziente e in ambito sanitario: i no-vax hanno rifiutato consapevolmente un trattamento dopo essere stati ampiamente informati in merito, quindi debbono assumersi la responsabilità delle conseguenze.

Ma è proprio questo pilastro a essere messo in crisi dalle circostanze: il 'consenso informato' si basa su un’ipotesi implicita, e cioè che il paziente creda alle informazioni che gli vengono date. La scelta di aderire o meno ai trattamenti proposti non mette in dubbio la verità delle informazioni date dal medico. In altre parole, il 'consenso informato' si basa su un patto fra pazienti e medici: il Ssn offre ai pazienti i migliori percorsi di cura disponibili, i pazienti hanno fiducia nelle informazioni ricevute e in base a queste decidono se aderire o no alle proposte terapeutiche. Nel caso dei no-vax questa dinamica non può valere perché cade il presupposto stesso del 'consenso informato': gli antivaccinisti negano le informazioni ricevute, non credono che il vaccino sia efficace, al contrario, sono certi che è pericoloso. E c’è chi rifiuta anche il trattamento con ossigeno perché non lo reputa adeguato, perché magari non crede neppure nell’esistenza del virus.

La pandemia ha fatto emergere gli esiti della autodeterminazione portata alle conseguenze finali. Si è ormai consolidata l’idea che tutte le scelte hanno pari valore, purché compiute con consapevolezza e autonomia, perché il bene da tutelare è la scelta in quanto tale, non si vogliono dare valutazioni sull’oggetto della scelta. E allora se sono pari le opzioni di curarsi o meno, di morire o di vivere, debbono esserlo anche le opzioni di quali informazioni ritenere attendibili e quali no. Se ho libertà totale di curarmi, fino a decidere di farmi erogare un 'servizio di morte' dallo Stato, per quale motivo non dovrei essere in grado di scegliere anche come informarmi? Il paradigma bioetico basato sull’autodeterminazione assoluta ne distrugge lo strumento principale, il 'consenso informato', perché porta a una totale autoreferenzialità, costruita intorno alle proprie personali percezioni soggettive e alla propria capacità di conoscere, cancellando il riconoscimento di qualsiasi riferimento esterno a sé.

Il «dilemma dell’ultimo letto» – questa l’espressione spesso usata nella letteratura di settore per indicare la problematica di cui stiamo discutendo – non è risolvibile se si toglie il patto di fiducia fra medico e paziente, e faremmo meglio a dire fra Ssn e cittadini: il patto medico-paziente non può infatti escludere la comunità in cui si vive, non può tagliar via la solidarietà. Il Ssn non è una entità amministrativa 'neutrale': è nato in un orizzonte valoriale ben preciso, quello del favor vitae. Se la sacrosanta libertà personale di scelta viene interpretata fino a negare le basi su cui è nata e poggia l’attività di cura e l’impegno per la guarigione, non possono che affastellarsi contraddizioni e lacerazioni nel tessuto sociale, con conseguenze che vanno oltre l’ambito sanitario, come stiamo vedendo anche in questi giorni.

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