Se la politica fugge i doveri
mercoledì 25 settembre 2019

Lo scontro costituzionale senza precedenti sulle prerogative di premier e Parlamento, risolto all’unanimità contro Boris Johnson dall’Alta corte britannica, è estremamente significativo di come il deterioramento del costume e la polarizzazione della cultura politica possano persino minacciare la tenuta della più antica, solida e ininterrotta democrazia occidentale. Alla metà del XIX secolo, in un libro magistrale intitolato "La Costituzione inglese", Walter Bagehot sosteneva che la democrazia ispiratrice di tutte le altre democrazie moderne fosse fondata, con buona pace di Montesquieu, sulla fusione dei poteri e non sulla loro separazione (cosa peraltro vera per quella americana).

La definiva una sorta di «dittatura del gabinetto», ovvero una architettura in cui le prerogative del premier trovavano l’effettivo limite nella reverenza ispirata dalla Corona e nella sintonia tra premier e Parlamento. A mano a mano che il ruolo politicamente attivo della Corona è andato scemando, quello che ha preservato la tenuta della democrazia a fronte della supremazia del premier è stata la condivisione della cultura politica, cioè il fatto che a nessun primo ministro saltasse in mente di poter usare la consuetudine e la tradizione per abusare del proprio potere e danneggiare la articolata Costituzione inglese. Esattamente quello che Boris Johnson ha provato invece a fare, fingendo di non capire che la lunga sospensione imposta alla sessione parlamentare costituisse un atto sì "politico", ma non nel senso da lui invocato di responsabilità, di libera scelta, bensì di arbitrio, perpetrato per aggirare l’evidente venir meno della sua maggioranza in Parlamento sul tema della «No deal Brexit».

Con la rozzezza e pretestuosità del suo agire, Boris Johnson ha messo in evidenza anche la fragilità dell’aulico assetto della monarchia costituzionale di fronte ai tentativi di sovvertimento, agli abusi e alle minacce che provengono dall’interno, tanto più nell’ambito di una struttura costituzionale articolata e composita come quella del Regno Unito. Johnson ha dimostrato, suo malgrado, come l’opera di polarizzazione prodottasi nel Regno sul tema della Brexit, grazie al referendum e all’ascesa dell’Ukp abbia avvelenato anche un partito per definizione «pro-establishment» come quello conservatore. In effetti tutta la lunga concatenazione di eventi del quale lo schiaffo dell’Alta corte è solo l’ultimo, provvisorio, passaggio rimonta alla (ir)responsabilità politica di un altro premier: quel David Cameron che pensò bene di regolare i conti all’interno del Partito conservatore e attestare la sua malferma leadership scaricando sulle spalle dell’elettorato la questione della permanenza britannica nell’Unione, da risolvere attraverso la semplicistica scelta tra il 'leave' e il 'remain'. Che l’operazione fosse un azzardo lo attesta proprio il fatto che, una volta che il popolo si è pronunciato, nel Parlamento si sono scaricati, con potenza moltiplicata, tutti i problemi del 'come' uscire. Detto altrimenti, il referendum non ha risolto un problema ma semmai ne ha creato uno nuovo e di difficilissima risoluzione.

Ciò dovrebbe suonare da monito a chi vede nel «ricorso al popolo» la via maestra per rivitalizzare le nostre affaticate democrazie. Gli strumenti della democrazia diretta sono preziosi e come tali devono essere impiegati in maniera tale da non snaturarne la funzione di ausilio alle pratiche della democrazia rappresentativa, la quale peraltro non deve sfuggire dalle sue proprie responsabilità. Come peraltro il sacrosanto ricorso alle urne finisce con l’amplificare i problemi anziché risolverli, quando è continuamente reiterato (si pensi alla Spagna). In tal senso, al di là dei tratti pittoreschi, viziati e infantili della personalità di Boris Johnson, siamo di fronte a un clamoroso fallimento dell’élite politica nel suo complesso che ha prodotto la 'rivolta popolare' intercettata successivamente dal-l’offerta politica populista. È questo un tratto comune a tutte le democrazie contemporanee, e deve risuonare come un campanello d’allarme per tutti il fatto che una simile crisi possa arrivare a mettere a rischio l’intero assetto costituzionale. Per il momento questa eventualità è stata scongiurata dallo schiacciante e aspro verdetto della Corte.

Ma il problema più complessivo della rivitalizzazione delle democrazie rappresentative, della de-radicalizzazione dello scontro partitico e della sforzo per la ridefinizione di una condivisa cultura politica rimane e non può essere risolto da nessuna Corte e nessun Tribunale. Il ribadirlo non è un esercizio di 'moderatismo' fine a se stesso ma, anzi, è un richiamo alla responsabilità insostituibile delle élite politiche affinché il 'giocattolo' che ha consentito di stemperare conflitti ben più aspri nel corso del Novecento (a partire da quello di classe) non diventi totalmente inservibile o preda dei demagoghi.

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