domenica 19 gennaio 2014
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Si dissocia da quelli che chiama «gli spacciatori di infelicità», coloro i quali, avendo fallito nella vita, rubano la speranza anche agli altri e gettano manciate di sconforto «attraverso la tivù, il cinema, i telegiornali e i media in generale». Non ne può più di chi, se si parla di valori, scuote la testa asserendo: «Cose d’altri tempi, oggi purtroppo non più...». Pupi Avati, regista e produttore cinematografico di successo, non ci sta a questo gioco al ribasso: «Qualcuno mi sa spiegare che differenza c’è tra un giovane oggi e quando io ero povero in canna e mia moglie aveva 21 anni, ma c’era l’amore e questo bastava per sposarci e avere i nostri tre figli?».
Nei film e nelle serie televisive racconta imperterrito di famiglie che lottano con i denti ma reggono, di padri che fanno i padri, di donne che fanno le mogli, di amore e fedeltà, di tradimento ma poi di ritorno, di cadute e di riprese, di crisi e di risorse, di figli che nascono e sono una benedizione, di anziani che muoiono e sono rimpianti. Insomma, della vita, la nostra, quella vera. Quella normale. Talmente normale che Avati è oggi considerato un regista trasgressivo, persino coraggioso. Tanto coraggioso da dire chiaro e tondo che «il divorzio non è una conquista, è sempre una sconfitta» (lo ha ribadito qualche sera fa a 'Porta a Porta' zittendo l’avvocato matrimonialista), che i figli è bello averli da giovani, che il 'per sempre' del matrimonio è la più inebriante ed eroica promessa tra chi si ama, anche quando non ci si riesce, che la vita è dura, anzi durissima, ma se ci si stringe tra noi ce la si fa.
Non è uomo che edulcora o la manda a dire, Avati, a partire dal titolo dell’ultima serie televisiva tuttora in onda su Raiuno, 'Un matrimonio': bello schietto, senza giri di parole. Un matrimonio, uno tra tanti, con tutte le tragedie ma anche quel carico di umanità che riscatta le nostre storie personali: nella saga familiare che si dipana dalla Bologna dell’immediato dopoguerra ad oggi, ritroviamo i racconti dei nostri nonni, i ricordi dei genitori, la nostra stessa infanzia, l’Italia che conosciamo, dall’euforia della ricostruzione agli anni di piombo e della contestazione. Cinquant’anni di vicende in cui Avati spende se stesso, ispirandosi al matrimonio dei suoi genitori.
Ma come si spiega il grande successo della serie televisiva (stasera e domani le ultime due puntate), che domenica scorsa ha stravinto sulla concorrenza e ogni sera incolla al video almeno cinque milioni di italiani? Non ci sono scene di sesso (persino nella recente puntata di 'Gli anni spezzati' dedicata su Raiuno al giudice Sossi il nudo era così fuori tema da risultare comico), nessuna relazione omosessuale (non c’è fiction oggi che ci rinunci, banalizzando il tema nel peggiore dei modi), nessuna volgarità, niente parolacce, quale allora il segreto di Avati? Ha il coraggio di dire ciò che la gran parte di noi pensa ma che ci teniamo dentro, perché come dice don Abbondio il coraggio se uno non l’ha non se lo può dare, ed oggi per parlare di valori il coraggio ci vuole.
Ovunque ci giriamo tira aria di pessimismo, la parola d’ordine è rinuncia, il relativismo svuota concetti come verità e diritto, la norma è sovvertita, la fede derisa, la felicità negata, il buon senso preso a calci. Chi osa ancora dire che la famiglia è l’unione di un padre e una madre che si sposano e hanno figli è costretto a ritrattare (Barilla a 'La Zanzara'), ma nessuno scandalo ha suscitato nella stessa trasmissione chi l’altra sera ha inneggiato alla pedofilia (il regista Squitieri che ammetteva il suo sesso con una tredicenne, e delle sue stesse figlie dichiarava «ancora vergini a dodici anni? Disgustoso»).
Questa è l’aria che tira e che ci fanno respirare. Finché non arriva un Pupi Avati, che non giudica e non fa moralismi, ma che dice le cose come stanno e si fa testimone: «Per parlare di matrimonio bisogna conoscerlo da molto tempo, non si può giudicarlo arrivati agli antipasti. E io, sposato da 49 anni, ho mangiato anche il dolce, sono giunto al caffè... non me l’hanno ancora portato». 
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