lunedì 13 gennaio 2014
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Il federalismo fiscale è un nobile principio, ma quanta libertà di manovra è produttivo concedere ai sindaci se si vogliono perseguire obiettivi di equità e giustizia? La questione si sta ponendo in modo serio con la definizione della nuova Tasi per il 2014, la tassa sui servizi indivisibili che un po’ goffamente sta cercando di prendere il posto della vecchia Imu. Nel tentativo di assicurare entrate adeguate ai comuni senza penalizzare i cittadini rispetto al passato, alle amministrazioni comunali sta per essere concessa una elevata discrezionalità nel definire le aliquote e le possibili detrazioni, unita però ad alcune rigidità di fondo legate alla struttura della tassa. Secondo le ipotesi emerse finora, i sindaci potranno chiedere ai cittadini più del 3,3 per mille previsto dalla Tasi, a patto però di usare le maggiori entrate per introdurre sconti alle fasce "deboli". Quanto alla definizione di "deboli", le amministrazioni godrebbero inoltre di un ampio margine nel decidere se agevolare i redditi Irpef più bassi, oppure le famiglie più numerose, oppure ancora basarsi sulle dichiarazioni Isee, oppure combinare i diversi fattori. Sindaci e ragionieri comunali dovranno però fare i conti con un dato di realtà altamente vincolante connesso a questo nuovo tributo e che rischia di produrre importanti squilibri: il fatto, cioè, che la Tasi ha un’aliquota più bassa dell’Imu, ma non prevede detrazioni automatiche e universali per le case di minor valore o le famiglie numerose. Come rilevato da un’elaborazione del Sole 24 Ore, rispetto al tributo precedente potrebbero dunque essere avvantaggiati i cittadini che risiedono nelle città più grandi, dove cioè i valori sono più alti, e dove pertanto le amministrazioni potranno contare su minori entrate e margini di manovra più ristretti nel concedere sconti; rischiano invece di pagare di più le famiglie che risiedono nei centri minori, che prima annullavano la tassa grazie alle detrazioni, dove a questo punto ci si augura che i sindaci trovino il modo di compensare le maggiori entrate con sconti adeguati. Insomma, a fronte di un ventaglio elevato di possibilità, il pericolo è – tanto più nell’irrazionalità irrisolta delle rendite catastali – di produrre una giungla di situazioni differenti, dove il concetto di equità finisce per essere totalmente arbitrario oltre che frazionato e disperso a seconda della fortuna, del caso, o della circostanza di abitare in un centro piccolo, medio, grande, del Sud, del Nord e via dicendo. La Tasi ripropone così una questione molto più ampia, esplosa in questo tempo di crisi: il tema della differenza territoriale sempre più marcata non solo del peso del fisco, ma anche del costo dei servizi municipali rivolti alle famiglie. In molte realtà, ad esempio, negli ultimi anni si è registrata un’esplosione delle rette degli asili nido e delle tariffe per le mense scolastiche. Rincari giustificati dalla necessità di continuare ad assicurare un servizio pubblico di fronte alla diminuzione delle risorse, ma che hanno colpito una larga fetta di utenti che comunque non sono stati risparmiati dalla crisi. Il fatto è che questo è avvenuto in modo altamente difforme, sollevando un problema da non sottovalutare. Una ricerca di un pool di economisti dell’Università di Verona, pubblicata dalla voce.info, dimostra che la fortissima disparità nelle tariffe degli asili nido che si registra in Italia non dipende tanto dalla capacità dei sindaci di attuare politiche redistributive, dalla ricerca di giustizia sociale o dal colore politico dell’amministrazione, quanto dalla collocazione territoriale del comune o molto semplicemente dal fatto che il primo cittadino sia una donna.Lo studio sembra spiegare bene la ragione di quella si presenta ormai come una cartina di disparità locali ai limiti del paradossale, con persone nella stessa identica condizione familiare, reddituale e patrimoniale che, pur abitando nella stessa area, si trovano a pagare somme molto diverse a seconda dei confini municipali. Lo squilibrio non riguarda più solo regioni lontane tra loro: sempre più spesso in territori omogenei si trovano strutture di costi altamente eterogenee, con differenze così marcate – fino a diverse migliaia di euro l’anno – da mortificare ogni tensione verso l’equità. Il punto non è mettere in discussione il principio del federalismo municipale, ma tutelarlo dalle distorsioni di un meccanismo guasto tra centro e periferia. In buona sostanza: può essere la collocazione di un comune, la sua dimensione, la sua forma o la banale "preferenza" di un amministratore a determinare differenze così nette? Tra Tasi, addizionali, rette e tariffe che sempre di più gravano sulle famiglie, forse è il momento di avviare una riflessione sugli effetti della discrezionalità dei territori, o almeno sulla dimensione minima del bacino in cui si devono verificare le ricadute delle politiche fiscali e tariffarie.
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