domenica 8 luglio 2012
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Anche se la vita non torna mai indietro, il passato ci insegna sempre qualcosa. Rapporto tra etica e giustizia. Frizioni tra politica e magistratura. Accusa, ai giudici, di voler colpire con la spada del processo penale il semplice malcostume politico, come se tutta la realtà potesse essere letta con gli occhiali del codice penale. Sono temi che alcune vicende di questi giorni riportano alla ribalta e che, ai più giovani, sembrano aver fatto irruzione sulla scena italiana negli ultimi venti anni. E invece questi temi appartengono al dibattito pubblico di sempre. Circa quarant’anni fa, commentando sulla Stampa la sentenza che concludeva il cosiddetto "scandalo della banane" (chissà se i meno giovani lo ricordano: una storia di favori nelle concessioni da parte dell’Azienda Monopolio Banane), Alessandro Galante Garrone elogiava la decisione dei giudici, soprattutto per la capacità di aver saputo distinguere «con estrema chiarezza l’illecito penale da tutto ciò che, presentandosi come rilassatezza, insensibilità civica, deplorevole andazzo amministrativo e politico, non è, penalmente, rilevante». E concludeva ricordando che al magistrato «non si addice il vigoroso colpo di scopa, che manda tutto per aria in un nugolo di polvere, ma piuttosto il freddo e prudente ago della bilancia». Elementare, potrebbe osservare qualcuno: perché tutti sappiamo che compito del giudice penale è l’accertamento di precisi fatti, costituenti reato, attribuibili a determinate persone; e che tale funzione non dovrebbe mai essere contrastata. Come pure sappiamo che al magistrato non competono funzioni di tutore della morale pubblica e privata e vaghe missioni risanatrici. Il buon funzionamento del processo penale può essere il supporto, la sponda, per questa azione di risanamento; ma la tutela della morale pubblica spetta solo ai cittadini e alla politica che essi sono capaci di esprimere. Vero e apparentemente semplice. Ma, a ben vedere, tutte le bufere che periodicamente si sono abbattute sulle nostre istituzioni e sulla pubblica opinione sono state alimentate e gonfiate dall’incertezza che si creava su questo confine che dovrebbe delimitare etica e giustizia. Da un lato, nutrendo aspettative eccessive dal lavoro dei magistrati, che veniva così caricato di significati estranei al processo. Dall’altro lato, accusando i magistrati di invadere il campo della politica e di agire perseguendo fini di parte. Questa spirale di attese ed accuse improprie è poi aggravata da un fattore specificamente italiano: l’assenza di serie responsabilità politiche e amministrative. Faccio un esempio, ormai storico: nei primi anni Novanta, la Commissione parlamentare antimafia approvò, con voto quasi unanime, una relazione in cui si affermava l’esistenza di provati e continuativi legami tra esponenti della corrente andreottiana in Sicilia e alcuni personaggi mafiosi. Ebbene: sul piano politico, quella relazione non ebbe alcuna conseguenza. E così, quando due anni dopo la procura di Palermo sostenne che il legame di Giulio Andreotti con la mafia aveva integrato il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, il processo fu inevitabilmente caricato di altri e impropri significati. Come se i giudici di quel processo non dovessero semplicemente verificare un’ipotesi di accusa, ma stessero scrivendo la storia. La drammatizzazione che subì quel processo, e che ancora adesso diffonde i suoi veleni, fu la conseguenza di una responsabilità politica affermata, ma non politicamente sanzionata. Se pensiamo che un gigante della storia come Helmut Kohl, subito dopo aver compiuto il miracolo della riunificazione tedesca, fu costretto, dal suo stesso partito, ad abbandonare la scena pubblica per una vicenda di illecito finanziamento della campagna elettorale, ci rendiamo conto di come le scintille tra politica e giustizia – che si verificano in tutte le moderne democrazie – abbiano in Italia un micidiale propellente aggiuntivo.
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