mercoledì 14 dicembre 2011
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​Ha destato molte perplessità lo sciopero generale di lunedì scorso delle grandi organizzazioni sindacali, anche in ambienti normalmente propensi a sostenere tale iniziativa. A me l’esperienza estrema dello sciopero ha suscitato sempre motivi di riflessione, coinvolgendomi in un rinnovato e intenso impegno nel mondo del lavoro. In questa circostanza però sono rimasto non solo profondamente deluso per le modalità con cui è maturata la protesta, ma anche per l’irresponsabilità civile che colgo nella scelta di aggiungere in questa fase della vita del nostro Paese, già in gravissime difficoltà, questa ulteriore tensione sociale.Certo, molte delle ragioni sostenute per indire lo sciopero sono condivisibili, specialmente quelle riguardanti lo sbilanciamento del "costo" della crisi sulle spalle delle categorie professionali e sociali più deboli, e senza tener conto sinora del carico delle rispettive famiglie. Ma non è per me condivisibile il bersaglio, cioè l’interlocutore contro cui si è manifestato, astenendosi dal lavoro: un timoniere appena arrivato al governo di una nave che stava affondando. In questo momento c’è una urgenza chiara: raggiungere remando insieme il porto, evitare il naufragio per poi ripartire e avviare la costruzione di un nuovo sistema Paese, con un welfare partecipato ed efficiente.Penso che la momentanea unità sindacale che si è realizzata, più per convenienza che per convinzione, non può essere a scapito di quella dell’Italia che sta concludendo le celebrazioni dei suoi 150 anni come nazione. Il mondo adulto e dei pensionati di cui il sindacato fa largamente parte, non può continuare a pensarsi come erede di un prestigioso passato e padrone del presente, ma dovrebbe sentirsi gestore di una realtà che ha in prestito dai propri figli. Se si fosse capaci di questo sguardo lungimirante emergerebbero subito due coordinate di rigenerazione e di coraggiosa azione sul campo, per realizzare un sindacato sempre meno autoreferenziale e sempre più intergenerazionale: 1. radicamento con intelligente umiltà nella società civile, nel mondo associativo, nei laboratori culturali-popolari che sono ancora il vero welfare morale e sociale dei nostri territori; 2. Connessione a livello europeo e mondiale, per non rimanere a rimorchio di mercati e finanza globali. Le schiavitù post moderne nel mondo del lavoro che tengono soggiogati interi popoli e generazioni, denunciate con energia profetica dalla Caritas in veritate in vista di un lavoro decente e dignitoso, chiamano in causa anche il nostro sindacato perché sappia strutturarsi e incidere sia a livello locale, come sullo scenario continentale e planetario, in modo efficace e adeguato ai tempi nuovi che incombono.Non sembrano animate da questo respiro di equità e giustizia globale le strategie sindacali nostrane, mentre l’economia e la finanza corrono a velocità planetarie e supersoniche. Pare che non si comprenda che è diventato prioritario sviluppare una collaborazione responsabile con il mondo delle imprese che continuano a investire nel lavoro e a competere all’estero, percependo i lavoratori non solo come "dipendenti", ma anche come "soci", nell’uscita avventurosa dal tunnel della crisi. Che certe visioni antagoniste vadano archiviate ce lo ricordano del resto i troppi suicidi di piccoli imprenditori, specialmente al Nord, rimasti sul campo fino all’ultimo credito bancario possibile.Purtroppo, poi, rimane da costruire una rete di rappresentanza e tutela tra i precari e i giovani in cerca di lavoro (visibili e invisibili), dove la sintonia e la collaborazione con le associazioni giovanili potrebbe essere assai feconda e promettente, anche nella preparazione di nuovi leader sindacali. La realizzazione di obiettivi di questa portata esige anche alcuni cambiamenti esemplari nella dinamica e organizzazione sindacale esistente, per esempio investendo maggiori risorse e presenze di operatori sindacali tra i giovani e i precari; il sindacato del resto è nato proprio nelle difficoltà, e alle nuove difficoltà deve saper dare positiva risposta.
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