sabato 10 aprile 2010
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Benjamin Nobel, coordinatore dell’antiterrorismo Usa per i Mondiali di calcio in Sudafrica, lo ha detto senza giri di parole: «Un evento di questo genere è di per sé un bersaglio». Logico quindi, e prevedibile, che i megafoni di al-Qaeda provassero a sfruttare la platea globale della festa sportiva per un gigantesco spot al terrore («Si sentirà in uno stadio pieno di spettatori il rumore di un’esplosione e ci saranno decine o centinaia di cadaveri») e magari per provare a volgere un’occasione di pacifico incontro tra i popoli in un ennesimo tributo di sangue. Il tutto reso ancor più clamoroso e orrendo dal fatto che questi sono i primi Mondiali in terra d’Africa, un’occasione per l’intero continente e soprattutto per il Paese che li ospita, a sua volta impegnato in un complesso amalgama di popoli e mentalità diverse. Lo sdegno e la preoccupazione, però, non devono impedirci di cogliere alcuni segnali non secondari, informazioni che i terroristi di al-Qaeda Maghreb (certo non il Maometto il Salafita che ha firmato il testo sul sito poi cancellato dal web) involontariamente ci regalano. Intanto, lo spasmodico desiderio di visibilità. Frasi come «i campionati sono seguiti dai telespettatori di tutto il mondo e trasmessi da decine di emittenti» agghiacciano per ciò che sottintendono, ma allo stesso tempo rivelano un ampio grado d’impotenza. Il nostro mondo, diciamo pure l’Occidente americano ed europeo, è ormai per loro fuori portata: il muro della sicurezza, nonostante qualche falla (come nel caso del giovane nigeriano sul volo Delta a Natale), in buona sostanza tiene e gli agenti del terrore sono costretti ad aspettarci "in casa loro" per tenderci agguati. Non a caso la filiale maghrebina di al-Qaeda ha colpito duramente l’Algeria tra il 2007 e il 2008, ma poi si è segnalata quasi solo per la caccia agli ostaggi stranieri, tra i quali purtroppo anche il nostro Sergio Cicala e la moglie Philomene. Da ciò discende un’altra considerazione: al-Qaeda è ormai quasi solo un marchio di fabbrica, un logo preso in prestito qua e là da chi vuol vestirsi di una pericolosità che forse non ha. Nella ragione sociale della milizia fondata dallo sceicco Ossama Benladen c’era, esplicito, il proposito di portare la guerra in casa dei "nuovi crociati", gli americani e i loro alleati europei. Cosa che per un lungo periodo i terroristi sono riusciti a fare, colpendo a New York (2001), Madrid (2004), Londra (2005). La filiale maghrebina è violenta e spietata, ed è riuscita a lanciare qualche ponte verso gli Usa (come l’imam Anwar al-Awlaki, che in una moschea della Virginia aveva conosciuto Nidal Hasan, l’autore della strage in una base militare nel novembre 2009), ma resta un surrogato dell’originale. Le sue azioni, soprattutto le più recenti, somigliano assai più alle abitudini criminali di tante società tribali (razzie, cattura di ostaggi) che ai piani sottili e micidiali del terrorismo internazionale. Pare legittima, quindi, una duplice conclusione. Al di là di una prima fascinazione, subita anche sulla spinta di frustrazioni nazionali da noi forse sottovalutate, i popoli islamici si sono sottratti al richiamo del terrorismo e di fatto lo hanno respinto ai margini della loro vita sociale. Magari in ritardo, e senza rielaborare il risentimento anti-occidentale, comunque tenendosene alla larga. Ma l’altra conclusione è questa: il terrorismo islamico finisce fatalmente con il fare vittime soprattutto tra i musulmani. Se non le altre, questa è una lezione che tutti, a qualunque latitudine, hanno alla fine imparato.
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