mercoledì 26 settembre 2012
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​Gentile direttore,
sono un lettore abituale di "Avvenire" e non del "Giornale"; sono perfino un elettore abituale del Pd e può pensare quali siano le mie abituali opinioni rispetto al direttore Sallusti. Sono ancora scandalizzato per il trattamento subito dal suo predecessore, direttore Boffo, ma non posso accettare che Sallusti venga condannato al carcere perché direttore responsabile a causa di un articolo di un suo collaboratore che trattava la drammatica vicenda di una minorenne autorizzata da un giudice ad abortire. Ho l’impressione che non solo si voglia criminalizzare un reato che sarebbe d’opinione, ma che si voglia introdurre così un precedente pernicioso e pericoloso rispetto alla libertà di criticare anche le conseguenze degli atti giudiziari e lo stesso presunto diritto all’aborto. Lei non crede, direttore?
Pier Luigi Tolardo
Credo, gentile signor Tolardo, che il direttore Sallusti non debba finire in cella, perché credo che nessuno possa essere chiuso in carcere per le proprie opinioni o per quelle che ha pubblicato. Credo tuttavia che le opinioni possano anche essere espresse male e in modo da far male (soprattutto quelle di chi scrive sui giornali o parla in tv o alla radio o comunica su internet) e che perciò serva senso della misura e una misura risarcitoria seriamente adeguata (e più ancora che i soldi mi vengono in mente, titoli e spazi equivalenti a chi ha subìto torti o eccessi mediatici, quegli spazi e quei titoli che su "Avvenire" cerchiamo sempre di dare a coloro che riteniamo si siano trovati in simili condizioni). Questo perché i giornali non possono diventare tribunali senza grado di appello, dove le sentenze più sballate restano bene o male sempre in piedi. Questo perché credo, e con i miei colleghi cerco di fare (magari a volte sbagliando qualcosa), un giornalismo liberamente responsabile, che non può mai ridursi a uno "sbattere dentro" (prima in pagina e poi, magari, in galera) e perché sono convinto che in questo Paese dobbiamo smetterla un po’ tutti (ma soprattutto noi giornalisti) di "chiamarci fuori" dal rispetto non solo e non tanto delle regole, ma delle persone. Credo in sostanza che qualunque inchiesta e qualunque "battaglia" giornalistica possano essere condotte anche in modo ruvido e duro, ma mai truffaldino e ostentatamente denigratorio. Credo che si possa criticare e criticare fortemente, ma non si debba mai travisare e insultare. Ammetto, infine, di non riuscire più a sopportare – esattamente nella stessa maniera – museruole, malafede ed esasperazioni. E la volgarità a tutte colonne mi dà la nausea. Ecco cosa credo e sento, gentile lettore. Con la netta sensazione di non essere affatto il solo.
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