giovedì 14 maggio 2015
​Il governo accelera per raggiungere gli obiettivi dell’Agenda Digitale e aumentare la velocità per navigare in Rete. Ma 22 milioni di italiani continuano a vivere senza il Web. Ecco cosa c’è dietro il braccio di ferro con l’ex monopolista Telecom e il possibile coinvolgimento dell’Enel.
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Il governo e Telecom Italia litigano da mesi ormai perché entrambi vogliono dare agli italiani connessioni a Internet rapidissime, ma hanno idee molto diverse su come raggiungere l’obiettivo. In effetti sono diversi anche i loro scopi, quindi è naturale che l’esecutivo e l’ex monopolista non riescano a trovare un compromesso. Il governo ha l’esigenza di raggiungere il terzo obiettivo dell’Agenda Digitale Europea: entro il 2020 almeno la metà della popolazione deve sottoscrivere abbonamenti a servizi di connettività oltre i 100 Megabit per secondo (Mbps). Il problema è che gli ultimi dati, riferiti al luglio scorso, dicono che la quota di italiani dotati di connessioni a banda larga ultraveloce è allo 0,1%, il terzo dato più basso dell’intera Unione europea. L’obiettivo del 50%, dunque, appare lontanissimo, tantopiù che quando si tratta di cantieri italiani cinque anni volano via in un attimo. Per questo a Palazzo Chigi vogliono accelerare.  Dal canto suo Telecom Italia, altrettanto comprensibilmente, ha intenzione di difendere la posizione di egemonia nel mercato domestico.  Dopotutto il controllo della rete di telecomunicazione nazionale – 115 milioni di chilometri di cavi in rame e 7,4 milioni di chilometri di fibra ottica – è la sua maggiore forza: per poter lavorare infatti gli altri operatori hanno bisogno di fare passare telefonate e dati dalla rete di Telecom pagando affitti che, lo scorso anno, hanno fatto incassare all’ex monopolista 2,3 miliardi di euro di ricavi (su 11 miliardi di fatturato in Italia).   Ecco spiegato perché a Telecom non può andare bene il progetto da 6,5 miliardi di euro messo in campo dal governo, che intende affidare la futura infrastruttura ad alta velocità a un soggetto come Metroweb, dove l’ex monopolista dovrebbe convivere con alcuni dei suoi rivali storici, e – soprattutto – avrebbe una quota di minoranza (la maggioranza resterebbe in mano ai fondi della Cassa depositi e prestiti, cioè al ministero del Tesoro). D’altro canto l’esecutivo non sembra affatto intenzionato a concedere a un’azienda privatizzata ormai 20 anni fa il privilegio di mantenere anche nell’era ormai prossima della banda ultralarga il ruolo di gestore della rete in monopolio e, contemporaneamente, operatore in concorrenza con gli altri. Tra l’altro, dicono i tecnici, per raggiungere certe velocità la fibra ottica è l’unica soluzione, e quindi quei milioni di chilometri di cavi in rame andrebbero sostanzialmente mandati in cantina. Da qui l’ultima minaccia governativa, lasciata maliziosamente trapelare alla stampa e poi ridimensionata poco convintamente: l’ipotesi di affidare la realizzazione della nuova rete a un gruppo come Enel, altro ex monopolista e peso massimo dell’industria nazionale.   Tra gli elementi paradossali di questo scontro c’è n’è uno che curiosamente viene sottolineato di rado: agli italiani questa banda larga non è che in realtà interessi molto. Come ammettono i tecnici di Palazzo Chigi nel documento finale sulla consultazione dei soggetti coinvolti nella strategia italiana per la nuova rete veloce «una delle maggiori difficoltà di sviluppo della banda ultralarga in Italia è rappresentata dal basso potenziale della domanda». Insomma, si legge in quel rapporto, c’è il rischio di riuscire a raggiungere gli obiettivi di copertura fissati dall’Europa, e quindi mettere la banda larga veloce a disposizione di tutti i cittadini entro il 2020, ma di mancare il traguardo del 50% di abbonati. «Secondo l’ultimo rapporto Istat “Cittadini e nuove tecnologie” ci sono ancora quasi 22 milioni di persone (38,3% popolazione della residente) che non “navigano” e forse non sanno neppure bene cosa sia Internet. Bisogna ripartire da qui, con azioni sistemiche di forte impatto» scrive a commento di questi passaggi del documento la Fondazione Mondo Digitale, uno dei soggetti coinvolti dalla consultazione governativa.   Anche nel cammino verso il futuro digitale l’Italia paga i suoi guai demografici e culturali. Essere il terzo paese più anziano del mondo (con 44,3 anni di età mediana ci superano solo Principato di Monaco e Giappone) ci rende particolarmente ostici alle novità tecnologiche, non essere stati capaci di realizzare progetti massicci di alfabetizzazione informatica ci ha fatto restare indietro a livello di capacità di usare i nuovi strumenti. In Italia soltanto il 56% della popolazione tra i 16 e i 74 anni naviga regolarmente sul Web, percentuale uguale a quella della Grecia e migliore, a livello europeo, soltanto di quelle di Bulgaria e Romania. La media Ue è un lontanissimo 72%. Il 21% della popolazione italiana ha un livello «basso» di quelle che l’Europa definisce le «abilità digitali», il 21% addirittura «nullo». Difatti, interrogati dall’Istat sui motivi che li tenevano lontani dalla Rete, quattro “non navigatori” su dieci hanno risposto che non erano capaci di andare su Internet, uno su quattro che il Web gli sembrava inutile. Cosa ancora più preoccupante, questo scetticismo verso Internet è per molti versi condiviso anche dalle imprese: solo il 5% delle aziende italiane usa l’eCommerce (siamo all’ultimo posto in Europa in compagnia della Bulgaria) e la penetrazione di Internet tra le micro-imprese, quelle con meno di tre addetti, è addirittura inferiore a quella già bassissima che c’è tra le famiglie.   Il dubbio è lecito: può darsi che abbiano ragione questi 22 milioni di italiani che non navigano e non sanno perché dovrebbero farlo? Non possiamo escludere che a livello personale abbiano anche ottime ragioni per vivere senza il Web, ma per l’Italia questo è un problema. Il senso dell’Agenda Digitale europea non è portare tutti i cittadini online per farli svagare tra social network e foto di gattini, ma consentire alla popolazione dell’Unione di sfruttare il meglio delle possibilità offerte dalla Rete per migliorare l’istruzione dei ragazzi, il lavoro degli adulti e, in definitiva, la vita quotidiana di ognuno. Secondo le stime di Bruxelles un incremento del 10% della quota di popolazione connessa a banda larga genera una crescita tra l’1 e l’1,5% del Pil di un paese. Più connessioni veloci, quindi, significano anche più lavoro e più benessere.   La speranza non dichiarata del governo e delle aziende del settore è che se non saranno le fatture elettroniche o le pratiche comunali online a convincere gli italiani ad andare su Internet (e a pagare per andarci velocemente), forse potranno riuscirci film e serie televisive. Da tempo Sky e Mediaset premium, i leader della televisione a pagamento nel nostro paese, chiedono ai clienti connessioni a Internet veloci per sfruttare al meglio la loro offerta. Per l’autunno è atteso l’arrivo in Italia di Netflix, la televisione esclusivamente via Web che negli ultimi anni ha stravolto l’industria televisiva americana offrendo solo su Internet serie di straordinario successo come House of Cards.  Il successo della futuristica banda ultralarga italiana dipende così in buona parte dall’ultima evoluzione della cara vecchia tivù. E anche questo, nella bizzarra lotta per le connessioni degli italiani, è un altro bel paradosso.
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