Sappiamo tutto ma abbiamo fatto troppo poco
domenica 3 luglio 2022

Del Covid ormai sappiamo tutto. Al netto della sorprendente, imprevedibile contagiosità di Omicron 5, la sottovariante responsabile della fiammata estiva di contagi che stiamo vivendo (non solo in Italia). E questo è il primo, imprescindibile elemento che andrebbe tenuto presente quando – sta succedendo sempre più spesso in questi giorni – tentiamo paragoni con quello che è accaduto due anni fa, all’inizio della pandemia. Sappiamo come ci si contagia: tramite aerosol, stando molto vicini e a contatto con persone positive, soprattutto in luoghi al chiuso, ma anche all’aperto, in grandi assembramenti dove è impossibile mantenere la distanza di almeno un metro da chi ci circonda. Sappiamo come si può evitare il contagio: usando la mascherina Ffp2 in tutte le situazioni in cui non riusciamo a mantenere la distanza di cui sopra.

Sappiamo come riconoscere la malattia: febbre o febbriciattola, mal di gola, raffreddore, senso di spossatezza. Sappiamo quando e perché è importante fare un tampone: per stabilire se i sintomi che abbiamo appena elencato sono riconducibili effettivamente al Covid e per evitare di trasmetterlo a chi ci sta accanto. Sappiamo chi è a rischio di finire in ospedale e di morire anche: gli anziani e i grandi anziani, soprattutto se già acciaccati (come nella stragrande parte dei casi nel nostro sempre più vecchio Paese), i più fragili (malati cronici o immunodepressi), gli obesi e le persone in sovrappeso. Sappiamo che il vaccino, gratuito e accessibile a tutti, fa la differenza: chi non lo ha fatto va incontro facilmente (7 volte più facilmente, in base agli ultimi dati aggiornati dall’Istituto superiore di sanità proprio ieri) alla morte rispetto a chi la profilassi l’ha completata, soprattutto con la dose aggiuntiva booster. Sappiamo che anticorpi monoclonali e antivirali, di cui siamo dotati, aiutano: se somministrati entro 5 giorni dal contagio ai più vulnerabili possono attenuare il decorso della malattia.

Di tutte queste certezze le autorità sanitarie e politiche hanno fatto tesoro nel corso dei mesi, decidendo via via – e giustamente – per un graduale ritorno alla normalità, nell’ottica di un appello alla responsabilità individuale. L’Italia, a dire il vero, è stata persino criticata per l’eccessiva prudenza rispetto ad altri Paesi, dove le mascherine sono scomparse anche a scuola già a primavera e dove si è persino abolito l’obbligo di isolamento per i positivi, da noi ancora vigente (e oggetto di aspri scontri).

Ora da più parti ci si sta chiedendo se non si sia fatto tutto troppo in fretta, se rimuovere l’obbligo di mascherina e cancellare i limiti alle capienze ai grandi eventi non sia stato azzardato, se (e come) potremo e dovremo tornare a eventuali nuove restrizioni qualora il Covid dovesse tornare a riempire gli ospedali, oltre che a correre nel Paese come sta già facendo. Perché il punto vero è quanto o quanto a lungo il nostro Sistema sanitario sarà in grado di reggere a una ripresa così copiosa dei contagi, che significa anche una ripresa dei ricoveri, soprattutto nei reparti ordinari (vista la nuova, più blanda sintomatologia di Omicron).

Sia chiaro subito: siamo lontanissimi dall’emergenza vissuta in passato. In Italia siamo arrivati ad avere, nei tempi più bui, 4mila posti letto occupati nelle terapie intensive contro i 275 di oggi (l’anno scorso, nonostante l’epidemia stesse implodendo in questo periodo, ne avevamo 213). Ma è chiaro che se l’impennata dovesse diventare ingestibile sul piano sanitario, intasando i reparti e arrivando a bloccare di nuovo le attività ordinarie, da qualche parte bisognerebbe pur ricominciare a tirare freni e cinghia. Ecco, sapevamo anche questo. Sapevamo che l’anello debole della catena erano gli ospedali, con la carenza cronica di personale e la mancanza di spazi in cui organizzare pazienti positivi e pazienti negativi.

Sapevamo – e quante volte l’abbiamo sentito ripetere – che serviva un nuovo modello di sanità territoriale, anche artigianalmente organizzato con unità di intervento domiciliari (le famose Usca, che non a caso adesso vengono richiamate in servizio) e micro-hub a integrazione degli ospedali (ne sono stati creati alcuni da Nord a Sud) in grado di rispondere alle più semplici e frequenti richieste di aiuto: «Ho la febbre e la tosse, cosa devo fare?». Sapevamo tutto e abbiamo fatto poco e niente, in due anni e mezzo, a parte mettere a menù del Pnrr una riforma della sanità i cui tempi di realizzazione sono incompatibili con quelli del Covid, capace nel giro di un mese di sparigliare le carte e farci rimettere tutto in questione. Abbiamo tolto le mascherine troppo presto, dunque? Sì, forse. Meglio rimetterle? Sì, senz’altro, specie chi rischia e dove si rischia. Ma se non siamo in grado di gestire il Covid ancora, al di là degli obblighi e delle restrizioni alla nostra vita sociale e a quella dei nostri figli (che tra l’altro nessuno di noi e di loro potrebbe più tollerare) è perché pur sapendo tutto del virus non abbiamo messo in campo le misure strutturali che permettano di conviverci.

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