sabato 19 febbraio 2011
COMMENTA E CONDIVIDI
Se Sanremo non esistesse, in fondo basterebbe non inventarlo. Ma Sanremo c’è, e bisogna tenerne conto. Il problema non è il festival, se di problema si tratta. Il problema, semmai, sono quei milioni di italiani (pur sempre tanti secondo il mutevole Auditel) che vogliono il festival e l’aspettano. Esistono. Sono una maggioranza silenziosa, e grazie al cielo non cantano tutti. Volevamo forse non inventarli? Rispetto per gli anziani. Il Festival è più grande di chi scrive. Mi viene quasi di dargli del lei. Un uomo con gli stessi anni di Sanremo (le candeline sono 61) guarda già alla pensione: la pregusta o la teme. Il Festival della canzone italiana non ci pensa neppure. Si rassegnino gli amici snob che da domani mattina canteranno sotto la doccia: «Giù giù giù nel mare. Su su su nel sole», e trovino una giustificazione da dare ai loro figli.Sanremo c’è: salviamo il salvabile. Se non altro, con una Rai piena di sorprese (di cui spesso faremmo a meno), e con gli altri canali che, in banalità, nemmeno scherzano, sappiamo cosa ci aspetta per cinque giorni sugli altri trecentosessanta che annovera l’anno, se si esclude quello bisestile. Siamo sopravvissuti a cose peggiori. E poi, popolo di navigatori come siamo, per una settimana possiamo pure prendere il largo. Insomma, Bennato deve pur averci insegnato qualcosa: «Non fare la vittima se ti devi sacrificare, perché in fondo in fondo puoi sempre emigrare...». Senza la presunzione che alberga in ogni italiano medio che, secondo le circostanze, stabilisce come deve giocare la Nazionale e decide cosa deve fare il governo, osiamo formulare una modesta proposta per cambiare il destino di Sanremo. Mangiarsi i cantanti con gli orchestrali per contorno: suggerirebbe Jonathan Swift. Ma non occorre arrivare a tanto. Anna Oxa è poco digeribile quando urla arrabbiata: «Ed un gesto col dito…», figuriamoci se mangiata con le cime di rape, essendo ella barese.Dai teneri tempi andati di «Cari amici vicini e lontani» ad oggi è successo che Sanremo non è più Sanremo. Una volta qui venivano a sfidarsi le ugole d’oro nazionali, imbalsamate davanti al microfono, ed era loro consentito, per ovvi motivi, soltanto aprire la bocca quel tanto necessario per articolare suoni. In gara c’erano soltanto loro. Adesso le competizioni sono di più. Come se la “guerra” canora avesse aperto più fronti.Sanremo è in gara con se stesso. Ogni Sanremo deve battere quello che lo ha preceduto. E, dunque, è costretto a strafare per sconfiggere, in termini di share, il predecessore. Lo share è una faccenda delle televisioni che alla gente (convinta che Share sia l’ultimo profumo di Calvin Klein o un gruppo rock inglese) non interessa. Questa è “guerra civile”, perché la Rai vede per nemici anche le altre sue reti. C’è poi la guerra di confine con l’immediata concorrenza. Perché la Rai lancia il cuore oltre lo steccato per bruciare tutti i nemici, interni ed esterni, soltanto in questi cinque giorni, e non si industria per sollevare il tono generale, tirandolo fuori dalla banalità, dallo scontato, dalla volgarità e spesso dalla sciatteria?Sanremo è un piatto elaborato, sovrabbondante, ridondante. Perché vuole essere di più, andando oltre il suo ruolo, ultra petita, e sociologi inventati lo aiutano in questa autoconvinzione. Si può dare di più? Certo che sì, ma chi lo vuole? Un’abbuffata di cinque giorni, alla fine, fa sentire voglia di un semplice pezzo di pane, come quello di quando eravamo bambini. Caldo di forno e croccante: «Cari amici vicini e lontani». Pane e basta, senza companatico né coloranti, neppure conservanti.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: